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La crescita costante di Violetta Zironi

Violetta Zironi sul,palco di Vinitaly (© Paola Conti)

Violetta Zironi sul,palco di Vinitaly (© Paola Conti)

Dopo diversi mesi di astinenza durante i quali, per vari motivi, non ho avuto la possibilità di assistere a concerti di Violetta Zironi non mi sono lasciato sfuggire l’occasione di una doppietta in terra veneta, unita all’opportunità di abbinare due suoi concerti a un weekend tra le bellezze di Padova e Verona. Sia sul palco un po’ improvvisato dell’Osteria Barabba di Padova, sia su quello ben più strutturato di Piazza dell’Arsenale di Verona, nell’ambito degli eventi di Vinitaly and the City, Violetta si è trovata perfettamente a suo agio, esibendo un repertorio rinnovato ma come sempre fedele alle sue radici e al suo percorso musicale. E ho potuto constatare, non che ci fosse bisogno di un’ulteriore conferma, che Violetta è ormai diventata una one-girl band, in grado di reggere da sola qualsiasi palco, forte solo della sua voce, della sua chitarra e del suo ukulele.

Quella che si propone al pubblico veneto, quindi, è una Violetta già molto cresciuta e maturata rispetto a soli pochi mesi fa e la cui crescita continua inesorabile e incessante grazie alle preziose esperienze che sta collezionando in Italia e in tutta Europa: le recenti date a Berlino, Parigi e Londra; le tappe italiane, e non solo, ospite dell’amico Jack Savoretti, al cui tour continua a partecipare; le sessioni di songwriting con Pedro Vito, il chitarrista dello stesso Savoretti; le tante partecipazioni a Radio 2 Social Club con Luca Barbarossa su Radio 2.

Violetta imbraccia la sua Epiphone acustica (riducendo, giustamente, il numero di pezzi che interpreta con l’ukulele) e guida il pubblico in un viaggio lungo la strada della sua musica, che parte da radici lontane e a stelle e strisce, ma che poi approda fino ai giorni nostri, unendo il piacere della modernità al gusto per le meraviglie del passato: così country, bluegrass, blues e rockabilly si mescolano e si alternano fino a sfociare in maniera del tutto naturale nei brani originali composti da Violetta, che reinterpretano la tradizione arricchendola di elementi contemporanei, e tra cui spicca la splendida Every Little Ghost che rimane intatta in tutta la sua forza e intensità anche in versione voce e chitarra, dopo averla conosciuta nel bellissimo arrangiamento brit-pop fatto con la Social Band proprio a Radio 2.

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Max Gazzè scuote Reggio Emilia al Palabigi

Max Gazzè sul palco del Palabigi

Max Gazzè sul palco del Palabigi

Per chi come me, ahimé, ha ormai un bel 4 davanti all’età questi anni duemiladieci sono una certa tortura: la giovinezza vissuta quasi interamente negli anni novanta produce una quantità intollerabile di frasi che cominciano con “Ma pensa, sono già passati vent’anni da quando…”. Il Palabigi di Reggio Emilia, pieno e bello carico, sembra in effetti popolato principalmente da giovani adulti con in bocca proprio quella frase: “Ma pensa, sono già passati vent’anni da quando è uscito Contro un’onda del mare”, il primo album di Max Gazzè che, infatti, celebra adeguatamente l’anniversario dedicando quasi più spazio agli estratti di quel lavoro che a quelli del nuovo album in promozione Maximilian.

Poi è vero che in realtà il grande pubblico iniziò a scoprirlo solo l’anno dopo, con i tre singoloni che lo lanciarono ai piani alti dell’airplay: prima Cara Valentina, poi Vento d’estate (con l’amico Niccolò Fabi) e La favola di Adamo ed Eva, tutti inseriti nell’album omonimo uscito nel 1998, dove già si trovavano ben germogliati i semi dello stile di Max Gazzè, caratterizzato da una varietà sonora ricercata, frutto delle tante esperienze fatte in Europa come turnista e produttore, e da un approccio ironico alla composizione sia nei testi, spesso dissacranti ma non di rado profondi e intensi, sia nelle musiche, con arrangiamenti spesso sospesi tra il raffinato e il kitsch. Quando, con una bella mezzora di ritardo, inizia il concerto c’è già la prima sorpresa: Max entra in scena restando sul fondale, munito di microfono ad archetto, e si diletta in evoluzioni con le braccia seguite da  scie di colore proiettate dal video alle sue spalle, mentre canta l’ultimo ottimo singolo Mille volte ancora. Dalla stessa posizione prosegue con Megabytes, curiosamente scelta insieme con la successiva Questo forte silenzio a rappresentare Ognuno fa quello che gli pare? (2001) piuttosto che Non era previsto o Il debole tra i due. Al terzo brano finalmente guadagna la sua posizione al centro del palco e soprattutto imbraccia il basso per la recente I tuoi maledettissimi impegni (Sanremo 2013) che rivela la parte più sarcastica e graffiante delle sue liriche, peraltro in questo caso molto ricercate, nella frustrazione di un uomo al quale la propria donna non trova tempo da dedicare: “Potrei farti da fermaglio per capelli se per sbaglio ti venisse voglia di tenerli su. Oppure travestirmi da molecola di vento e accarezzarti impunemente il viso, mentre non hai tempo. E non c’è una soluzione se non essere l’involucro di ogni funambolico pensiero che ti viene, quando le giornate sono piene dei tuoi maledettissimi impegni!”

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L’incanto della semplicità. Il live di Erica Mou al Cortile Café

EricaMou

Erica Mou durante il concerto al Cortile Café

Avete presente quando siete al buffet dell’aperitivo e, dopo aver spizzicato olive, patatine, pop corn, noccioline, sedani, carote, crostini col salame, cracker col Philadelphia e, quando va grassa, quadratini di focaccia e di piadina scarsamente farcita, finalmente arriva la pizza? L’assalto delle cavallette è tale che a stento si riesce a recuperarne un piccolo trancio e mentre lo ingurgiti in due bocconi, già allunghi il collo per vedere se ne è rimasto un pezzo (pia speranza) o se ne portano ancora (arriverà, ma tra almeno venti minuti). La verità è che se sei fortunato riesci a servirti a malapena due volte, e resti lì con la voglia di pizza e l’ultimo sedano in mano e il bicchiere dello spritz vuoto, e la vita ti sembra uno schifo.

 

Bene, immaginate che la mia pizza si chiami Erica Mou (mi perdoni per questa licenza) e che per assaggiarla sia dovuto scendere fino in Puglia per averne appunto solo due piccoli bocconi: il primo nell’estate del 2014 durante un contest per giovani cantanti (Fasano Talent Festival) a Pezze Di Greco, ridente borgo nei pressi di Fasano nel brindisino. Borgo ridente sì, ma in cui per l’occasione la temperatura era scesa fino a circa quattro gradi (in agosto, in Puglia!). La seconda nell’estate del 2015 a Martina Franca con (forse) un paio di gradi in più, ma dopo un violento temporale che stava per mandarmi malinconicamente a casa, in T-shirt e bermuda e senza ombrello, se non fosse stato per il baracchino dei panini con le bombette che mi aveva aiutato ad ingannare l’attesa mentre i poveri, efficientissimi e volenterosi organizzatori dell’evento asciugavano l’asciugabile e mettevano in sicurezza tutti i collegamenti elettrici inopinatamente allagati. In quel caso, quale premio per la mia costanza, ottenni la mia prima foto con Erica, documentata qui di seguito.

EricaMat

In entrambi i casi, comunque, avevo assunto solo piccole dosi omeopatiche di Erica (5/6 brani, venti minuti circa per ciascuno spettacolo) restando, per l’appunto, con la voglia. La voglia di qualcosa di bello e di buono che sei riuscito appena ad assaggiare ma di cui ambisci all’indigestione. D’altra parte iniziavo anche a temere che la presenza contemporanea mia e di Erica nello stesso posto creasse particolari congiunzioni astrali tali da rendere possibili, se non probabili, eventi atmosferici di scarsissima frequenza, quali per esempio una nevicata alle Bahamas. Per questo mi sono accostato con una certa prudenza alla sua data in programma a Bologna (al nord) e per di più a gennaio (in inverno), temendo come minimo una muraglia di due metri di neve sull’intera A1, o per lo meno da Milano a Orte. Ma la voglia di mangiarmi la pizza intera (finalmente un suo concerto completo) ha prevalso su tutti i timori legati alla generazione involontaria di catastrofi naturali e ancora una volta, la scelta è stata premiata.

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L’eliminazione dei Landlord e l’inesorabile declino di X Factor

I Landlord sul palco di X Factor

I Landlord sul palco di X Factor

Chi mi conosce sa che fino a due anni fa la mia opinione sui talent show a tema musicale era fortemente condizionata da un enorme pregiudizio nei confronti degli show stessi. Un’opinione che onestamente non è mai mutata per quanto riguarda gli infinitesimali frammenti di trasmissione che mi sono capitati davanti agli occhi di The Voice, Amici di Maria De Filippi o robe simili. Né le performance dei personaggi usciti da questi programmi sono mai riuscite a convincermi della bontà di queste competizioni, anzi hanno piuttosto consolidato i miei pregiudizi e con loro la mia avversione.

Poi nel 2013 mi capitò per caso di imbattermi nelle audizioni di X Factor e soprattutto di imbattermi nella travolgente esibizione di Violetta Zironi (splendida protagonista nel suo graditissimo ritorno ieri sera) quando cantò un’entusiasmante Shortenin’ Bread accompagnandosi con l’ukulele. Decisi allora di seguire il programma, solo e soltanto per lei, e mi dovetti presto stupire di aver scoperto una trasmissione ben fatta, ben confezionata, ottimamente condotta dal bravissimo Alessandro Cattelan e che dava il giusto valore alla musica, presentata in modo ineccepibile, almeno in quella edizione. Certo, di artisti del valore di Violetta in gara ce n’erano pochi, o meglio, non ce n’erano proprio, a prescindere da chi si aggiudicò i primi posti in classifica, ma dal mio punto di vista non speravo certo di trovare i nuovi Bono Vox e Bruce Springsteen in un talent show. C’era Violetta e c’era un programma ben fatto. Tanto bastava.

A distanza di soli due anni e con il giro di boa della nona edizione già alle spalle con cinque degli otto live previsti ormai completati, si può tracciare un primo bilancio di X Factor 9 e l’impressione che emerge è che il sistema sia andato in corto circuito, e che le poche sacche di resistenza dentro le quali cerca di difendersi la musica di qualità siano solo la rappresentazione paradigmatica della schizofrenia di un programma che cerca di mantenersi in bilico tra i Duran Duran e Franco Battiato da una parte e i 5 Seconds Of Summer e Justin Bieber dall’altra, ma che è fatalmente strutturato per creare dei Justin Bieber e non certo dei Simon Le Bon.

Ma quali sono quindi le cause di questa deriva? Proviamo ad andare con ordine.

Se l’aggettivo più insopportabile di X Factor è di certo credibile, l’avverbio che ho imparato ad odiare profondamente nel corso delle puntate è senza dubbio discograficamente. Discograficamente guida le scelte dei concorrenti, discograficamente suggerisce le assegnazioni, discograficamente decreta la sorte degli eliminati. Il problema è che discograficamente significa tutto e niente, per il semplice motivo che nel momento in cui vengono prese decisioni basate sulle potenzialità di un concorrente rispetto al mercato, non ci si rende conto che questo mercato non solo è quello che si è contribuito a creare con le stesse scelte passate che si sono compiute (ed ecco il corto circuito), ma che in realtà del mercato questa è solo una fetta, e non è neanche detto che sia la fetta più sostanziosa perché di gente che ascolta tutt’altra musica e che la compra legalmente rispetto al “modello X Factor” e che assiste a tutt’altri concerti è piena l’Italia ed è pieno il mondo, anche volendo restare nell’orbita del mainstream che comprende musica di alta e bassa qualità in proporzioni quasi uguali.

E anche volendo ragionare in termini di puro marketing, come si fa a parlare di mercato musicale come un unicum, quando è invece uno dei più segmentati che si possa immaginare? Arrivando all’attualità, dell’assurda eliminazione dei promettentissimi Landlord parlerò più avanti, ma come spiegare l’eliminazione dell’ottimo Massimiliano D’Alessandro addirittura in prima puntata, se non per il fatto di non avere l’età e il physique du rôle che la produzione immagina per il suo vincitore modello? Ma allora, in ultima analisi, che senso ha mantenere in vita la categoria degli Over quando l’obiettivo è evidentemente quello di trovare l’ennesimo ragazzino da dare in pasto ad altrettanti ragazzini? Se a X Factor hanno deciso di rivolgersi solo a un determinato target (che poi è quello del concorrente Amici), sarebbe veramente più onesto abolire la categoria dei “vecchi” over 25 oppure limitarla a un’età massima o a un minimo di figaggine acchiappa-ragazzine (vedi alla voce G come Giosada, peraltro ottimo). Sempre restando in ottica mainstream, viene da pensare che se a un ipotetico X Factor 1988 si fosse presentato Luciano Ligabue, sconosciuto ventottenne con alle spalle qualche data in giro nel reggiano con gli Orazero, cantando Neil Young voce e chitarra, molto probabilmente non sarebbe arrivato nemmeno ai bootcamp.

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Luciano e il suo popolo. Ligabue trionfa a Campo Volo

Il megaschermo allestito per Campo Volo 2015

Il megaschermo allestito per Campo Volo 2015

Difficile commentare il megaconcerto di Luciano Ligabue a Campo Volo prescindendo dalle considerazioni legate all’evento più che al concerto: numeri da record, afflusso da record, durata da record, allestimento da record, polemiche da record. Un paio di aspetti devono quindi essere chiariti subito: si è trattato della grande celebrazione di massa di un ego smisurato? Certamente sì, è stato anche questo. D’altra parte chi sceglie di salire su un palco e sottoporre la propria musica al giudizio del pubblico lo fa sognando esattamente quel momento, come spiega ottimamente lo stesso Ligabue nel manifesto Tra palco e realtà (“Abbiamo un ego da far vedere ad uno bravo davvero un bel po’”).

Valeva la pena paralizzare per una settimana un quarto di una piccola città di provincia per realizzare uno spettacolo di questa portata che ha praticamente raddoppiato il numero di abitanti di Reggio Emilia per una sera? Ancora una volta sì. E non tanto, prosaicamente, per il semplice indotto economico che l’evento ha inevitabilmente generato, ma proprio per l’evento in sé. Una grande festa, un bellissimo spettacolo, uno show che ha portato non solo Ligabue ma l’intera città sotto i riflettori delle televisioni, sulle prime pagine dei giornali, tra le onde d’etere delle radio. Indubbiamente i disagi per i cittadini di Reggio potevano e dovevano essere gestiti meglio, ma qui si esula dalle competenze e dalle responsabilità di una macchina organizzativa che per quanto riguarda quello che è successo dentro all’arena di Campo Volo è stata impeccabile.

Sgombrato il campo da questi dubbi, non resto che lo show, bellissimo. Il megaschermo collabora, senza essere invasivo, alla perfetta riuscita dello spettacolo, rilanciando per il 90 % le immagini del palco (a beneficio di chi proprio non può vederlo), talvolta creando giochi e frame tra il palco, la folla e le immagini dei vecchi videoclip. E non resta che la musica. Tanta. Tantissima. Infinita. 40 canzoni, 3 ore e 40 minuti di concerto con solo due brevi pause per il cambio palco tra le tre band che hanno accompagnato Luciano lungo il percorso attraverso tre diverse epoche della sua vita e della sua carriera. Come era ampiamente annunciato, infatti, in occasione del venticinquesimo anniversario del suo primo omonimo album, Ligabue lo ha suonato integralmente con la band di allora, i Clan Destino. Allo stesso modo ha eseguito per intero Buon compleanno Elvis, che invece compiva vent’anni, con La Banda che lo accompagnava nel 1995.

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Torino 5 settembre, la lezione di rock degli U2

Gli U2 suonano Invisible da dentro lo schermo

Gli U2 suonano Invisible da dentro lo schermo

Era il 1993 e un’intera generazione sognava di sentirsi cittadina della neonata Unione Europea, la Germania appena riunificata ne era l’emblema e Berlino, con i suoi frammenti di muro, ne era il simbolico centro. Due anni prima gli U2, cogliendo alla perfezione lo Zeitgeist, avevano registrato proprio a Berlino il loro capolavoro Achtung Baby, un album che avrebbe influenzato l’intera scena rock di tutti gli anni ’90 e non solo; un album spiazzante per i fans storici, una rivelazione per noi ragazzini che conoscevamo sì Pride e Sunday Bloody Sunday, New Year’s Day e With Or Without You, ma che all’epoca, fino a quel momento, eravamo presi da altri suoni.

E così quell’anno ero là ai miei primi concerti degli U2 (già perché uno solo mi sembrava poco) e in particolare ricordo il secondo, il 17 luglio al Dall’Ara di Bologna, subito dopo l’orale della maturità. Ad ascoltare quasi tutto Achtung Baby e a rimanere incantato da tutto il resto, dalle meraviglie estratte dai primi album, con il rammarico di ancora non conoscere a sufficienza quei riff coinvolgenti, quegli arpeggi in delay, quelle parole così sentite cantate dalla voce più emozionante che si potesse immaginare.

E poi c’era lo show. I maxischermi, le immagini, le scritte che scorrevano veloci, la televisione, la polemica sulla televisione. Prima Zoo TV e poi Zooropa, un modo allora del tutto innovativo di coniugare musica e spettacolo. Uno sguardo visionario sull’Europa che non avremmo voluto, su una società che stava cambiando e non necessariamente per il meglio.

Due rinnovi della patente dopo, i timori, le paure, i problemi, i temi all’ordine del giorno sono, non  troppo sorprendentemente gli stessi, e allora l’atmosfera che si respira all’Innocence+Experience Tour ricorda dannatamente quella di ventidue anni fa. Certo, sul palco non ci sono più le Trabant, simbolo della fu Germania Est, ma al centro di tutto c’è ancora l’Europa, e al centro dell’Europa c’è ancora la Germania, e al centro della Germania c’è ancora Berlino (e la sua cancelliera).

Attorno a questi temi si dipana una scaletta ricchissima e, a tratti, inattesa, ma anche perfettamente coerente nella sua logica linearità, sospesa tra l’esigenza di offrire il meglio di un repertorio ormai sconfinato e toccare i tanti temi cari a Bono. Il quale, per inciso, non rinunci al suo ruolo di predicatore e di combattente per le sue battaglie civili (una su tutte la fondazione RED che lotta per la ricerca sull’AIDS) ma lo fa con un garbo e una leggerezza, senza interrompere il flusso delle emozioni, che nei tour più recenti sembravano scomparsi.

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I droni dei Muse nel cielo di Roma

Matt Bellamy sul palco di Rock In Roma

Matt Bellamy sul palco di Rock In Roma

Parlare di consapevolezza, di self confidence, di maturità quando si parla di una band attiva da quasi vent’anni e ai vertici mondiali da almeno un decennio può suonare strano se non assurdo. Eppure l’impressione che si ha lasciando l’ippodromo delle Capannelle dove i Muse hanno tenuto il loro unico concerto italiano nell’ambito del festival Rock In Roma è proprio quella che siano cresciuti, cresciuti insieme con il loro pubblico. Un pubblico composto e ordinato come raramente si trova tra i fan del rock, impassibile (o quasi) nelle lunghissime ore di attesa sotto il sole cocente fino a che non è finalmente sceso sotto al palco posizionato strategicamente verso ovest, paziente nel tollerare l’ora abbondante di ritardo con cui si presenta sul palco la band di Teignmouth, generoso nell’applaudire l’ottimo opening act, i londinesi Nothing But Thieves di cui sentiremo parlare ancora.

Ma soprattutto un pubblico partecipe, rumoroso pur nella sua compostezza, che ha regalato allo show quel tocco in più di scenografia che l’allestimento basico del festival aveva tolto dal solito usuale spettacolo di luci e colori cui ci hanno abituato Matt Bellamy e compagni. La scelta di presenziare a tutti i principali festival estivi piuttosto che portare in giro il proprio tour significa essenzialmente questo: scalette più brevi e più concentrate sulla carriera invece che sull’ultimo, fortunato, album Drones; allestimenti basici e poco spazio per i voli di fantasia; la musica rimessa al centro con pochi orpelli, come ci insegna proprio la svolta back to basics dell’ultimo lavoro.

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I Muse e i loro Drones tornano alle radici

La copertina di Drones

La copertina di Drones

Lo avevano annunciato subito dopo il trionfale tour del 2013, immortalato in nel memorabile DVD Live at Rome Olympic Stadium: dopo due album dedicati alla sperimentazione di suoni nuovi (sinfonici in The Resistance, elettronici in The 2nd Law) i Muse sarebbero tornati back to basics, cioè al suono essenziale chitarre (tante), basso (mai così poco distorto) e batteria (mai così potente). Per farlo si sono affidati alla coproduzione di uno che di quei suoni ne mastica un po’: Robert John “Mutt” Lange, già produttore di capolavori dell’hard rock come Highway To Hell e Back To Black degli AC/DC, che affianca Matt Bellamy, Chris Wolstenholme e Dom Howard dietro alla consolle.

Quello che non cambia è l’approccio al progetto in termini di concept album, tanto caro a Bellamy che trova inesauribili fonti di ispirazione (da 1984 di George Orwell e alla sua teoria del Grande Fratello alla seconda legge della termodinamica come metafora dell’insostenibilità del sistema in cui viviamo) ma che alla fine torna sempre a farsi risucchiare nelle pieghe delle teorie del complotto e della lotta per la liberazione contro subdoli e malvagi oppressori. Le tesi di fondo del lavoro, mai come in questo caso dal chiaro approccio socio-politico, sono due: la prima è la feroce polemica sull’utilizzo dei droni come strumento di distruzione a distanza che deresponsabilizza chi distrattamente schiaccia un bottone dal caldo della propria stanza, la seconda è la trasformazione degli stessi uomini in droni umani, programmabili e programmati come strumenti di morte, grazie al lavaggio del cervello e del controllo mentale, altra ossessione cara a Bellamy.

Per la prima volta, quindi, Drones è un album concettuale a tutti gli effetti, in cui si snoda la vicenda di un uomo solo apparentemente vivo (Dead Inside) in quanto trasformato in uno strumento di morte grazie al lavaggio del cervello (Psycho), che nonostante la sua inascoltata richiesta di pietà (Mercy) diventa uno dei mietitori di cadaveri (Reapers) nelle mani dei mandanti (The Handler) dell’autorità costituita. Ma che già alla fine del pezzo inizia la sua lotta interiore per liberarsi dal controllo dell’oppressore: “Non vi lascerò più controllare i miei sentimenti, non farò più quello che mi viene detto, non ho più paura di camminare da solo, lasciatemi andare, lasciatemi stare, sto scappando dalla vostra presa, non mi possederete mai più”.

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Negrita live. Pace, amore e gioia infinita.

Pau durante il concerto di Casalecchio

Pau durante il concerto di Casalecchio

La misura della crescita dei Negrita negli ultimi anni la dà la lunga lista di brani storici non presenti nella scaletta della seconda tappa del tour di promozione del loro ultimo album 9, attualmente nella Top 5 della FIMI dopo il debutto direttamente al numero uno. D’altra parte dopo oltre vent’anni di carriera il repertorio della band aretina è talmente vasto che l’ovvia e insindacabile scelta di dare spazio ai nuovi brani comporta necessariamente tagli dolorosi.

Non che i ragazzi si risparmino sul palco dell’Unipol Arena di Casalecchio, tutt’altro: due ore di show, ventitré brani suonati tra vecchi successi e novità, una scarica di energia rock con pochi orpelli, sonori e visivi, poco spazio per le ballate e tante chitarre graffianti. Pau è il solito splendido, incredibile, animale da palcoscenico, di gran lunga il miglior frontman nel panorama musicale italiano: canta, balla, salta, corre, parla, scherza, intrattiene, emoziona. Drigo invece ha l’aria di uno capitato lì per caso ma quando attacca i suoi riff killer si capisce che l’energia è tutta nel plettro, mentre Mac lo asseconda con la sua ritmica a formare quel suono ruvido e onesto che è la cifra stilistica della band. Completano la formazione Ghando alle tastiere, Cris alla batteria e l’ultimo arrivato Giacomo (Rossetti) al basso.

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Violetta riconquista il Fuori Orario.

Violetta sul palco del Fuori Orario.

Violetta sul palco del Fuori Orario.

È passato quasi un anno dal concerto di Violetta del 9 maggio 2014 al Fuori Orario, il primo vero evento tutto suo dopo la partecipazione a X Factor, e non è certo passato invano. Questa è la sensazione che ha accompagnato il ritorno della ragazza con l’ukulele sul prestigioso palco del locale di Taneto dove ha regalato una decina di brani al pubblico numeroso e partecipe che attendeva il concerto dei Rio, forte di una nuova consapevolezza e di una proposta musicale dall’identità ben definita e delineata, radicata nel pop più elegante e d’autore. Violetta ha trascorso questi mesi suonando e cantando in giro per l’Italia nelle situazioni più diverse, ma soprattutto lavorando su sé stessa come cantante, come musicista e come autrice, respirando l’aria della contemporaneità per arrivare a definire un percorso artistico e una cifra stilistica personale, per portare a compimento l’indimenticata definizione-manifesto data di lei da Mika: “allo stesso tempo vintage e moderna”.

Sul palco del Fuori Orario, accompagnata da due giovani e talentuosi musicisti come Luca Marchi al basso e Maicol Morgotti alla batteria e alle percussioni, ha quindi portato ampi stralci di questo suo nuovo manifesto musicale, accantonando per una volta il repertorio blues, country e bluegrass, e scegliendo di offrire al pubblico i suoi nuovi riferimenti nella modernità e soprattutto i primi frutti della sua vena creativa. Rivelando così una maturità compositiva disarmante e sorprendente per una ragazza che compirà vent’anni solo tra due settimane, come ha dimostrato la vivace A te che dici che mi ami, già presentata in altre occasioni, ma che arricchita dalla sezione ritmica ha espresso tutta la sua freschezza e immediatezza, e tutta la leggerezza di un testo scanzonato (ma non banale) che parla della fine di una storia d’amore con l’ironia e la levità sdrammatizzante che si deve a una storia tra giovanissimi.

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