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Referendum costituzionale. Perché voto convintamente sì.

bastaunsiChi mi conosce e mi segue sa che non amo molto parlare né tanto meno scrivere di politica, che pure seguo con l’attenzione che ogni cittadino dovrebbe avere nei confronti della res publica. Tuttavia il referendum sulle riforme costituzionali (il DDL firmato da Maria Elena Boschi) previsto per il prossimo 4 dicembre è un argomento troppo importante per non essere affrontato.
Chi mi conosce, inoltre, sa anche che sono fondamentalmente molto scettico sulla democrazia diretta, cioè sullo stesso istituto referendario. Questo per due motivi piuttosto semplici: il primo è che l’elettore medio raramente dispone delle competenze per poter decidere su materie lontanissime dalla quotidianità; il secondo, immediata conseguenza del primo, è che sulla base di queste scarse competenze non si capisce per quale motivo un comune cittadino dovrebbe ribaltare decisioni deliberate dai nostri parlamentari, pagati (profumatamente) proprio per legiferare in vece nostra, attraverso quell’istituto noto come democrazia rappresentativa.

Purtroppo, però, nel caso specifico il ricorso al referendum è praticamente obbligatorio, in quanto la stessa Costituzione oggetto di consultazione prevede che le leggi di riforma costituzionale non approvate in seconda lettura dalla maggioranza dei due terzi di ciascun ramo del Parlamento siano sottoposte a referendum, se ne fanno richiesta un quinto dei membri di una Camera, cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali. Cosa che ovviamente è avvenuta.
In estrema sintesi, il referendum è esso stesso la rappresentazione paradigmatica dell’ingessamento del nostro sistema, per il quale non sono sufficienti nemmeno sei deliberazioni del Parlamento per poter modificare alcune norme costituzionali. E se un appunto si può fare a questa riforma è proprio che questo principio rimane intatto, legando tragicamente il destino di una riforma importante ed essenziale agli umori di una folla, spesso ideologicamente e subdolamente orientata, invece che alla competenza del legislatore.

In altre parole potrei molto semplicemente dire: «se il Parlamento – con tutti gli strumenti che ha a disposizione – ha approvato per sei volte (sei!) questa riforma, è possibile che i comuni cittadini, che nel 90 % dei casi non sanno nemmeno cosa vuol dire “bicameralismo paritario”, ne sappiano di più?»
Tuttavia non userò questo argomento, perché non voglio certo invitare nessuno a votare sì “sulla fiducia” e voglio invece entrare nel merito della riforma e cercare di spiegare perché, a mio modo di vedere, si tratta di una buona riforma (non la migliore riforma ma, si sa, la politica è l’arte del possibile e non il libro dei sogni) e soprattutto perché il fronte del no sta raccontando un sacco di balle.

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Non amo moltissimo parlare di politica, né tanto meno scriverne. E non è certamente per snobismo o per un’adesione al frequentatissimo movimento demagogico dell’antipolitica (quella del “fate schifo tutti”, “andate a lavorare”, “una bomba su Montecitorio”, eccetera) che invece detesto e contesto, né per mero disinteresse verso il mondo che mi ci circonda. Al contrario, per molti anni mi sono occupato di politica attivamente e pur essendomene allontanato profondamente disgustato da quanto ho potuto vedere con i miei occhi, continuo a riconoscere un alto valore alla politica, il cui vero problema, almeno in Italia, credo sia quello di essere il potere storicamente più debole, stritolato tra poteri largamente più forti, contro i quali non ha la solidità, l’autorevolezza, la capacità di mettersi, finendo per diventarne succube.

Quello che mi allontana dalla politica sono invece i dubbi. Dopo anni di militanza, di visione idealistica del mondo, di tensione morale, ora non sono più sicuro di niente. Ho accantonato le idee preconcette, mi sono aperto a diverse visioni, cerco di valutare posizioni e proposte altrui senza alcun pregiudizio aprioristico nei confronti di chi le porta avanti. Cerco di approfondire le notizie senza fermarMi alla superficie, ai titoli sensazionalistici confezionati ad arte per provocare l’immediata indignazione, la reazione sdegnata di una o dell’altra fazione, alimentata dai giornali schierati, dai blogger schierati e puntualmente ripresi dagli schieratissimi utenti dei social media. Li osservo scannarsi su Twitter e su Facebook a colpi di condivisioni di articoli, sempre ovviamente della testata o del blog amico, a consolidare le già granitiche certezze. Mai un dubbio, mai il tentativo di approfondire le posizioni dell’altro . Un po’ li invidio, ma neanche troppo.

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