Attenzione! Avvertenza per i lettori. Questo non è un post nostalgico sui bei tempi andati e sui meravigliosi anni ’80 (e ’90), è semplicemente la presa d’atto di come nuove forme di comunicazione (principalmente via web) abbiano preso il sopravvento rispetto agli spot televisivi che fino a dieci – quindici anni fa erano il mezzo più rapido ed efficace di promozione e che in quegli anni sembravano fossero destinati a restare insostituibili per l’eternità. E, come tali, davano la possibilità a giovani (e non solo giovani) art director, grafici e copywriter di sviluppare idee innovative, capacità di sedurre, talento e creatività, mettendo in pratica la lezione dei grandi pubblicitari della storia. Io stesso mi iscrissi a Scienze della Comunicazione con il sogno di diventare un copywriter (vabbè, anche tante altre cose – a 19 anni le idee non sono poi così chiare – ma principalmente quello) e se penso alla qualità delle campagne di advertising dei nostri giorni non so se sentirmi sollevato per non dover scrivere spot come quello di Pittarosso o canzoncine come “Scappa scappa scappa con Panealba” o piuttosto deluso dal non essere stato ritenuto nemmeno in grado di scrivere uno spot così, dal momento che quei “creativi” fanno effettivamente quel lavoro.
Ma il punto è comunque un altro: il punto è che rispetto a quindici – venti anni fa sembra che le aziende e le agenzie pubblicitarie abbiano deciso di dedicare meno attenzione a questa forma di comunicazione che in passato, esattamente come alcuni videoclip, in certi casi ha superato i confini del mero filmato promozionale per assurgere al ruolo di opera d’arte. Non so se sia una questione di riduzione del budget o una semplice diminuzione della rilevanza della pubblicità televisiva nell’insieme della comunicazione integrata di un’azienda, fatto sta che il decadimento della qualità degli spot televisivi negli ultimi anni è evidente. E in particolare, questione che mi sta particolarmente a cuore, è evidente l’impoverimento della qualità della musica abbinata a questi spot.
C’era una volta la pubblicità della Levi’s, per esempio. Anche tante altre, certo: quella della gomma Brooklyn, per esempio, impossibile non ritrovarsi a un certo punto a cantare a squarciagola “Back hoooooome, back in your aaaaaaaarms” (ma anche Love Letters In The Sand qualche anno prima); quella dell’Aperol, molto prima che lo spritz diventasse di moda, con le gambe di Holly Higgins e la musica di Bryan Adams (Somebody) poi sostituita da Healing Hands di Elton John. Quello, meraviglioso, della Tuborg con Somethin’ about you di Kevin Welch (“Datemi una Tuborg che ricomincio da capo”), e in generale tutte le pubblicità generate dalla capacità dei produttori di birra di sapere sedurre il proprio pubblico attraverso spot accattivanti, in bilico tra la promessa di mondi straordinari e l’ironia tipica della pubblicità cosiddetta obliqua (come descritta da Jean Marie Floch nel suo quadrato semiotico applicato alla pubblicità), come gli spot Dreher delle scorse estati con ampie citazioni degli Ja.Ga. Brothers. E ancora il caso eclatante di Breathe, il brano di Midge Ure praticamente ignorato alla sua uscita nel 1996, e poi diventato un successo mondiale (con quattro settimane al numero uno della classifica italiana) due anni dopo, grazie a un popolare spot della Swatch.
Ma si diceva della Levi’s, come caso di scuola, un esempio perfetto di pubblicità mitica in cui prodotto, storia e musica si fondono perfettamente per definire un mondo seducente il cui valore, e i cui valori, è di gran lunga superiore al valore del solo prodotto e, in quanto tale, attrae il consumatore. Ecco, forse perché ai bei tempi andati dell’università avevo scritto una tesina per l’esame di Teoria e Tecniche della Comunicazione di Massa proprio sugli spot della casa di San Francisco, sono particolarmente legato alla comunicazione del brand a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 e soprattutto alla capacità delle loro agenzie di creare magnifici storytelling sempre supportati da splendide colonne sonore. Uno storytelling, si diceva, che per quanto incentrato sulla valorizzazione di un mondo (una certa America del passato rievocata appunto in primis dalla musica), non trascurava mai il prodotto, presentato nella sue caratteristiche peculiari: resistenza (all’acqua, agli strappi), duttilità, comodità, valorizzandone determinati aspetti specifici spot dopo spot. Tra l’altro un prodotto, i celeberrimi 501, utilizzato come icona rappresentativa dell’intero brand, creando una comunicazione trasversale allo stesso tempo istituzionale e di prodotto.
In quegli anni, ogni spot della Levi’s aveva la capacità di sorprendere e affascinare, di lanciare giovani star (tanto uomini quanto donne, trattandosi di un prodotto unisex) destinate a brillanti carriere nel cinema, di coinvolgere miliardi di persone in tutto il pianeta grazie alle storie prive di dialoghi (e quindi di traduzioni) ma raccontate solo attraverso immagini e musica, e di recuperare capolavori della musica, soprattutto americana, di epoche precedenti. In particolare alcuni dei brani utilizzati come colonna sonora ebbero dei ritorni di popolarità clamorosi scalando dopo vent’anni le classifiche USA dei 45 giri più acquistati (già, perché non solo esistevano ancora i 45 giri ma si vendevano pure…) come accadde a I Heard It Through The Grapevine di Marvin Gaye (il celeberrimo spot con lo strip di Nick Kamen nella lavanderia a gettoni) o a When A Man Loves A Woman di Percy Sledge già ripresa da Lawrence Kasdan nella colonna sonora de Il grande freddo ma rilanciata in grande stile dal commovente spot del soldato in partenza alla stazione degli autobus.
Non meno successo ebbero gli spot musicati da Sam Cooke con Wonderful World (quello con il protagonista che fa il bagno coi jeans per sottolinearne il trattamento anti restringimento) da Johnny Cash con Ring Of Fire e lo sfortunato incidente col rivetto al falò, dalle Ronettes con Be My Baby (con i jeans utilizzati per rimorchiare una macchina in panne – e per rubare la fidanzata al malcapitato autista) o da Muddy Waters con Mannish Boy, in cui una giovane e accaldata (e meravigliosa) Tatjana Patitz osservava estasiata l’ospite della sua roadhouse andarsene dopo aver recuperato i suo 501 dal frigo.
Negli anni ‘90, esaurito il boom dell’effetto nostalgia, anche i creativi al servizio di Levi’s hanno poi ripiegato su musiche più moderne, sempre mantenendo tuttavia un altissimo livello qualitativo, di pari passo con le storie raccontate. Basti pensare alla Steve Miller Band e alla sua The Joker nello spot in cui l’allora modella emergente Angie Everhart viene rapita dal suo fidanzato che si presenta nel suo ufficio in moto tra lo stupore dei colleghi, o ai Clash di Should I Stay Or Shoud I Go nello spot della sfida a biliardo con in palio un paio di jeans (o un’umiliazione). L’ultimo della serie, ispirata alla storia dei 501 dalla loro nascita, può essere considerato lo spot Creek con la colonna sonora Inside degli Stiltskin in cui torna il tema del bagno con i jeans, questa volta a turbare i pensieri di una giovanissima Vinessa Shaw, figlia di una coppia di mormoni nell’America di fine ‘800. Poi fu Boombastic e ancora Flat Beat con Mr. Oizo e il pupazzo Flat Eric, gli Smoke City di Underwater Love e una graduale normalizzazione degli spot della casa californiana, sempre meno avvolti in quell’aura mitica del periodo fine anni ottanta – inizio novanta.
E oggi? Oggi le agenzie di pubblicità scritturano stelle hollywoodiane a suon di milioni per far fare loro delle figure ridicole. Di Antonio Banderas che parla con le galline è già stato detto di tutto, di certo i suoi dialoghi con Rossssittaaah hanno fornito materiale ai monologhisti di casa nostra per i prossimi vent’anni. Kevin Costner col suo tonno Rio Mare, Bruce Willis perso nella campagna e nel suo improbabile italiano e Owen Wilson con il suo biondo Crodino hanno ridefinito al ribasso il concetto di testimonial. A dimostrazione che non è sufficiente avere un personaggio famoso per fare funzionare uno spot (come succede con George Clooney e il suo Nespresso) ma occorre anche l’appeal del prodotto e una storia da raccontare. Così come non basta scegliere per la colonna sonora di uno spot un brano mitico se poi il prodotto associato non è adeguato: pubblicizzare la cosa più ordinaria e rassicurante del mondo come l’acqua Ferrarelle con il pezzo manifesto della rock band più trasgressiva di sempre come Sweet Child O’ Mine genera inevitabili e involontari effetti comici oltre a fondati interrogativi su chi ha permesso cosa.
Un rischio, quello di sbagliare completamente target, che i presunti creativi al servizio delle società di telefonia non corrono assolutamente dal momento che tutto quello che riescono a mettere insieme è prendere la hit del momento e legarla a una storiella priva di senso e di qualsiasi legame col prodotto / servizio offerto, basta che abbia come protagonista qualche personaggio televisivo o qualche pseudocomico che non ha mai fatto ridere nessuno. Oppure, sulla scia del trash del già citato Pittarosso e all’abusato e distorto grido di “Bene o male, purché se ne parli”, lanciare il povero Enrico Ruggeri in una toccante interpretazione di “Le stelle sono tante, milioni di milioni…” con tanto di pay-off recitato con voce grave. Qui non si tratta di scomodare Jacques Séguéla o qualche altro guru della comunicazione, si tratta semplicemente di scomodare un briciolo di buon senso. E cercare di ritrovare tra un’offerta di extra giga e l’altra un minimo di fantasia, un guizzo di creatività.