Archivio mensile:Novembre 2016

Il fresco country “valdostano” di Mikol Frachey

La cover dell'album di Mikol Frachey

La cover dell’album di Mikol Frachey

È sempre un piacere poter godere della musica di giovani artisti italiani, che seguo sempre con simpatia. È un piacere ancora più grande poterne scriverne. Ed è un piacere enorme poter scrivere di artisti che ho avuto la gioia di conoscere e che quindi seguo con ancora più affetto nella loro avventura nel complicato mondo della discografia. È questo il caso di Mikol Frachey, giovanissima cantautrice che ho avuto la fortuna di poter ascoltare diverse volte dal vivo e che poche settimane fa è uscita con il suo primo album, intitolato col suo nome. Un album in cui spiccano la splendida voce della diciannovenne valdostana e una sonorità del tutto inusuale nelle produzioni made in Italy: un country che affonda le radici nei suoni caratteristici della tradizione americana, ma sapientemente declinato secondo i dettami della modernità.
Ma cosa lega le sonorità di Nashville e i dolci pendii intorno a Saint-Vincent? Non possiamo nemmeno pensare alla “West Virginia, mountain mama” di John Denver perché i riferimenti stilistici di Mikol sono altri, come è giusto che sia e come si conviene a una ragazza di diciannove anni.
Ecco allora che l’esperienza country a cui si ispira la Frachey è quella moderna e in qualche modo “contaminata” di artiste come Carrie Underwood e Gretchen Wilson, Shania Twain e, soprattutto, Taylor Swift, che viene citata in maniera implicita ed esplicita a più riprese tra le tracce dell’album. Una contaminazione da intendere nel senso più nobile del termine: quella in cui le canzoni, grazie a produzione e arrangiamenti che strizzano l’occhio all’attualità, diventano semplicemente più fruibili, mantenendo tuttavia intatte le caratteristiche e i suoni della musica country e, cosa molto importante, senza mai scivolare nel banale pop da classifica. Emergono allora altri riferimenti importanti, a loro volta frutto di contaminazioni, tipici di una millennial che ascolta musica contemporanea: dal raffinato pop-folk di Ed Sheeran al country-pop di Sam Hunt, con sfumature che riportano alle venature maggiormente rock di John Mayer.

Non a caso, Mikol non solo scrive interamente e interpreta i sui pezzi, ma suona anche splendidamente la chitarra (acustica, elettrica e dobro), aspetto che si evince chiaramente già in fase di scrittura, così che il suo approccio country si definisce fin dall’ispirazione; come prova di tutto questo basta ascoltare, in rete, la versione dal vivo del singolo Give Me Water, solo voce e chitarra. Sono poi  l’arrangiamento e la produzione a miscelare sapientemente strumenti tipici della tradizione americana (chitarra dobro, armonica, banjo, fiddle) e suoni più moderni e contemporanei. Suoni che vedono le chitarre sempre in primo piano, a tratti addirittura rockeggianti: si pensi all’assolo finale dell’ottima Budweiser, il brano sicuramente più rock dell’album, ma anche alla struttura di Blind, con arpeggi quasi brit-pop, diverse parti di chitarra stoppata e una batteria a tratti molto potente.
Tuttavia Mikol non si limita certo a scimmiottare meccanicamente esperienze altrui, ma le rielabora e le fonde con la sua sensibilità per creare una musica personale e originale. Gli elementi di punta sono infatti il suo ottimo songwriting, semplicemente incredibile per una ragazza della sua età, e un minuzioso lavoro di studio per trovare a ciascun brano il vestito giusto. In questo senso la nuova versione di Give Me Water è già una dichiarazione d’intenti: il nuovo arrangiamento alza di una tacca tutti i suoni più riconducibili al country e aggiunge nuovi elementi distintivi, dalla batteria che sembra trottare, ai cori di background, dal fiddle al flauto. Una rivoluzione artistica rispetto ai suoni del singolo e del relativo video, probabilmente dettata dall’esigenza di dare coerenza stilistica all’album.

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Referendum costituzionale. Perché voto convintamente sì.

bastaunsiChi mi conosce e mi segue sa che non amo molto parlare né tanto meno scrivere di politica, che pure seguo con l’attenzione che ogni cittadino dovrebbe avere nei confronti della res publica. Tuttavia il referendum sulle riforme costituzionali (il DDL firmato da Maria Elena Boschi) previsto per il prossimo 4 dicembre è un argomento troppo importante per non essere affrontato.
Chi mi conosce, inoltre, sa anche che sono fondamentalmente molto scettico sulla democrazia diretta, cioè sullo stesso istituto referendario. Questo per due motivi piuttosto semplici: il primo è che l’elettore medio raramente dispone delle competenze per poter decidere su materie lontanissime dalla quotidianità; il secondo, immediata conseguenza del primo, è che sulla base di queste scarse competenze non si capisce per quale motivo un comune cittadino dovrebbe ribaltare decisioni deliberate dai nostri parlamentari, pagati (profumatamente) proprio per legiferare in vece nostra, attraverso quell’istituto noto come democrazia rappresentativa.

Purtroppo, però, nel caso specifico il ricorso al referendum è praticamente obbligatorio, in quanto la stessa Costituzione oggetto di consultazione prevede che le leggi di riforma costituzionale non approvate in seconda lettura dalla maggioranza dei due terzi di ciascun ramo del Parlamento siano sottoposte a referendum, se ne fanno richiesta un quinto dei membri di una Camera, cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali. Cosa che ovviamente è avvenuta.
In estrema sintesi, il referendum è esso stesso la rappresentazione paradigmatica dell’ingessamento del nostro sistema, per il quale non sono sufficienti nemmeno sei deliberazioni del Parlamento per poter modificare alcune norme costituzionali. E se un appunto si può fare a questa riforma è proprio che questo principio rimane intatto, legando tragicamente il destino di una riforma importante ed essenziale agli umori di una folla, spesso ideologicamente e subdolamente orientata, invece che alla competenza del legislatore.

In altre parole potrei molto semplicemente dire: «se il Parlamento – con tutti gli strumenti che ha a disposizione – ha approvato per sei volte (sei!) questa riforma, è possibile che i comuni cittadini, che nel 90 % dei casi non sanno nemmeno cosa vuol dire “bicameralismo paritario”, ne sappiano di più?»
Tuttavia non userò questo argomento, perché non voglio certo invitare nessuno a votare sì “sulla fiducia” e voglio invece entrare nel merito della riforma e cercare di spiegare perché, a mio modo di vedere, si tratta di una buona riforma (non la migliore riforma ma, si sa, la politica è l’arte del possibile e non il libro dei sogni) e soprattutto perché il fronte del no sta raccontando un sacco di balle.

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Achtung Baby, i 25 anni di una pietra miliare della musica

La cover art di Achtung Baby

La cover art di Achtung Baby

Narra la leggenda che alcuni fan riportarono indietro l’album al negozio di dischi. Dopo aver messo sul piatto il lato A del vinile (già, c’era ancora il vinile…) e aver sentito le chitarre fastidiosamente distorte dell’intro di Zoo Station, cambiarono lato e vi trovarono le chitarre ancora più fastidiosamente distorte di The Fly. Così tornarono al negozio e chiesero di cambiare l’album, a loro dire difettoso.

Era il 18 novembre 1991 e, benché si tratti ovviamente di una leggenda (d’altra parte The Fly era uscita già da un mese e si sapeva già bene come suonasse), è un aneddoto che ben racconta cosa abbia significato Achtung Baby nella storia non solo degli U2, ma di tutta la musica rock contemporanea. 25 anni dopo quella fatidica data, resta un album di un’attualità sorprendente, i cui suoni hanno influenzato l’intera decade e anche oltre, fino a ben dentro il terzo millennio. Una di quelle pietre miliari della musica che qualsiasi semplice appassionato non può non conoscere. Della genesi di quel lavoro, dei pesanti attriti tra i membri della band che la accompagnarono, dell’inutile ricerca di ispirazione in una Berlino appena riunita, privata del muro e rappacificata, è stato detto e scritto tutto. Così come della magia che si materializzò in studio seguendo il semplice giro armonico di One e che guidò quattro musicisti convinti di essere ormai al capolinea a realizzare invece un altro album capolavoro e ad assicurarsi altri 25 anni (almeno) di successi. Quindi quello che voglio provare a ricordare oggi, nel giorno di questo importante anniversario, è invece l’effetto che Achtung Baby ebbe su di me, in quello che senza dubbio fu un anno magico per la storia della musica (basti citare Nevermind, Out Of Time, Blood Sugar Sex Magik, il Black Album dei Metallica, il canto del cigno dei Queen Innuendo, Ten dei Pearl Jam, l’addio dei Dire Straits On Every Street, i due Use Your Illusion…). Su un ragazzino di diciotto anni che era solo uno dei tanti che aveva iniziato, quasi faticosamente, ad apprezzare gli arpeggi puliti in delay di The Edge e che di colpo era stato travolto da un muro sonoro di chitarre sature e distorte.

Già, perché per quanto sia stato educato alla buona musica fin da piccolo grazie a un fratello maggiore illuminato (che mi iniziò all’ascolto di Billy Joel e dei succitati Dire Straits su tutti), in età adolescenziale della band di Bono e soci mi arrivava poco. Avevo solo dieci anni quando uscì Pride e, pur essendo stata fin dall’epoca una hit devastante in heavy rotation su Deejay Television, in quel momento non ne coglievo la portata epocale; piuttosto mi chiedevo perché si chiamasse Pride quando per tutto il tempo ripeteva “in the name of love”; lo scoprii solo diversi anni dopo con il testo davanti. Avevo undici anni, invece, quando in vacanza estiva con la scuola venivo svegliato ogni mattina da un brano sconosciuto trasmesso dagli altoparlanti della camerata, che in seguito imparai a conoscere come Sunday Bloody Sunday. Avevo tredici anni, infine, quando i miei amichetti cercavano di convincermi della bellezza di With Or Without You che invece a me, tutto sommato, in quel momento, non diceva granché. Insomma, non si può certo parlare di amore a primo ascolto. E la cosa sia di consolazione a chi ha figli che ascoltano i Modà: c’è tempo per crescere e imparare. Allo stesso modo l’innamoramento con Achtung Baby non fu un colpo di fulmine, ma un lento e paziente corteggiamento; con lui, l’album, che si faceva scoprire a poco a poco, traccia dopo traccia, ed io che pian piano mi abituavo a quei suoni, li metabolizzavo quasi staccandoli dal resto, fino a riconoscere la melodia, e a scavare nella profondità dei testi.

All’inizio però fu solo One: totalmente incantato dall’andamento irrituale del pezzo, dal crescendo disperato, dall’arrangiamento perfetto, dall’incredibile dinamica di un pezzo che parte quasi come un sussurro per voce e chitarra ed esplode in una power ballad che più power non si può, fino a un finale che ti trascina in un’altra dimensione. Recuperai di corsa With Or Without You e lì ebbe luogo l’illuminazione, il riconoscimento del genio: riascoltai il brano in parallelo con One e trovai tutte le presunte regole della hit perfetta scardinate e reinventate. Entrambe costruite su giri armonici banalissimi, a dispetto delle masturbazioni mentali dei maniaci delle settime diminuite e delle quarte sospese, entrambe prive di un vero e proprio ritornello, con buona pace di tutta la retorica sanremese sull’orecchiabilità delle melodie, entrambe per lungo tempo a rischio di essere scartate e di finire nel cestino a causa dell’incertezza sulla direzione da prendere.  Salvate in un caso dalla Infinite Guitar di The Edge, nell’altro dall’intervento di Brian Eno, dopo che in seguito all’eccitazione iniziale per la nascita magica del pezzo, One si era persa tra mille overdub e mix diversi.

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