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La Top 5 degli album italiani del 2017

Cesare Cremonini, in testa alla mia Top 5 2017

Musicalmente il 2017 è stato un anno per lunghi tratti imbarazzante (soprattutto nel periodo estivo) ma, come spesso accade, per contraltare ha anche vissuto dei picchi di altissimo livello, peraltro concentrati nella prima e soprattutto nell’ultima parte dell’anno. In attesa di conoscere i primi lavori del 2018, già anticipati da alcuni ottimi singoli di recente uscita, ecco la mia personalissima (e quindi opinabilissima) Top Five dei migliori album dell’anno. A cominciare dagli italiani, tra cui avrebbero meritato una menzione anche A casa tutto bene di Brunori SAS e 709 di Caparezza.

1) Possibili scenari – Cesare Cremonini
Uno dei pochissimi artisti che dopo quasi vent’anni di carriera e sei album di inediti riesce ancora a migliorare e a migliorarsi. Possibili scenari è un album che sintetizza in dieci indimenticabili pezzi l’attitudine cantautorale tipica della tradizione italiana e la costante ricerca di un suono internazionale, personale e innovativo. Cremonini crea linee melodiche originalissime; fonde testi e musiche in un intreccio perfetto; stravolge e rivede la forma-canzone ideando nuove e originali strutture; utilizza tutti gli elementi a disposizione di un musicista preparato, colto e ispirato come lui:  strumenti acustici, strumenti elettrici, elettronica e orchestra. Capolavoro.
Perla: Nessuno vuole essere Robin

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Erica Mou pianta la bandiera della musica d’autore

Erica Mou sul palco della Salumeria della Musica (ph. Deborah Raimo)

Benché nel testo della straordinaria Svuoto i cassetti Erica Mou si autodefinisca una “bimba spaesata”, in realtà la ancora giovanissima cantautrice pugliese è cresciuta tantissimo negli ultimi anni, in un percorso di maturazione artistica che con questo bellissimo nuovo lavoro, Bandiera sulla luna, raggiunge il suo apice; momentaneamente, viene da pensare, perché Erica sembra essere oggi nel pieno della sua massima ispirazione e con ogni probabilità ha ancora in serbo altri ottimi album negli anni a venire.
Tanto per cominciare, Erica oggi è molto più donna, in tutte le sfaccettature del termine. È più affascinante: e per la prima volta sulla copertina dell’album si offre in un’immagine in cui si esalta la sua femminilità tra trasparenze e sensualità; è più matura: e per la prima volta nei suoi sempre originali testi fa riferimenti espliciti all’amore fisico e sensuale (“Ti sazierei con i fornelli spenti”, “Ieri, solo ieri,
sdraiati sul fianco, la mia schiena sul tuo petto
”); è più sfrontata: e in un paio di occasioni si abbandona addirittura a un inatteso ma non per questo meno pertinente turpiloquio, buttato là tra immagini piene di poesia.
È più consapevole: e in quello straordinario inno alle donne e all’amicizia femminile, per voce e chitarra, che è Ragazze posate (la prima volta che l’ho ascoltata in anteprima dal vivo avevo pensato fosse la più bella canzone scritta da Erica, oggi resto convinto che sia tra le prime tre) traccia un’introspezione dell’universo femminile da inserire direttamente in un’antologia sul tema; è più libera: e la si vede ballare divertita nel video del primo singolo Svuoto i cassetti a dispetto di quanto raccontava di sé stessa in Giungla: “Allora cerco di ballare bene, ma pare sia il mio corpo a non andare bene”. Inoltre, come accade da quando è tornata nell’alveo delle etichette indipendenti dopo l’esperienza con la Sugar, Erica ha oggi una totale libertà di azione a tutti i livelli: dalla scrittura agli arrangiamenti, dalle interpretazioni alla produzione.

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Rock e tacco dodici: la classe di Paola Turci

Paola Turci sul palco del Teatro Valli

Se c’è un’artista sottovalutata nel panorama musicale italiano questa è assolutamente la bravissima Paola Turci. Forse perché troppo mainstream per il mondo indie (che peraltro Paola ha frequentato) che troppo spesso guarda al circuito delle major con un po’ troppa spocchia, forse perché troppo indipendente (per fortuna!) per entrare nel frullatore mediatico che trasforma cantanti di caratura ben minore in popstar artificiali, adibite a mere macchine per la produzione di denaro. Fatto sta che pur avendo nel corso di una carriera lunga ormai più di trent’anni ottenuto il plauso unanime della critica (con una sorta di abbonamento, per esempio, al premio della critica sanremese) e del pubblico, competente, che la segue, resta l’impressione che non sia considerata una delle grandissime della musica italiana come ampiamente meriterebbe.

Un’ennesima dimostrazione della sua bravura si è avuta poche sere fa in occasione della tappa reggiana del suo Il secondo cuore Tour, durante la quale ha incantato il pubblico del Teatro Valli di Reggio Emilia con una performance maiuscola per intensità, energia, eleganza e feeling. E con una scaletta incentrata sui brani del suo ultimo fortunatissimo album intitolato proprio Il secondo cuore (da cui piuttosto sorprendentemente restano esclusi due piccoli gioielli come La fine dell’estate e Nel mio secondo cuore), probabilmente il lavoro più riuscito della cantautrice romana, grazie a una maturità artistica raggiunta attraverso un lungo percorso ricco di sfide e di idee nuove e anche grazie alla collaborazione con la bravissima autrice romana Giulia Anania (oltre che con Enzo Avitabile e con Luca Chiaravalli alla produzione), che affianca Paola nella scrittura di gran parte dei brani dell’album.

Un percorso, quello di Paola, iniziato nell’ormai lontano 1986 a Sanremo con la prima partecipazione al Festival nella sezione Nuove Proposte (L’uomo di ieri) e consolidato con la vittoria nella categoria Emergenti tre anni dopo con l’indimenticabile Bambini, uno dei non rari pezzi di impegno sociale e civile che caratterizzano da sempre il repertorio di Paola, che interpretava già allora la fine degli anni ’80 sulla scia delle Edie Brickell, delle Tracy Chapman e delle Tanita Tikaram (chitarra a tracolla e attitudine da folk-singer) che si contrapponevano al pop disimpegnato di Madonna e delle sue eredi ormai in rampa di lancio.
Un cammino che ha visto Paola evolversi e trasformarsi, vestendo panni sempre nuovi, da pura interprete a cantautrice fatta e finita, passando attraverso un gusto raro per la rielaborazione e la reinterpretazione di cover straniere poco scontate: dalla Luka di Suzanne Vega degli esordi fino a This Kiss (Questione di sguardi) che senza la sua versione probabilmente sarebbe passata inosservata alle orecchie distratte degli italiani che non si fossero imbattuti nel film Amori & incantesimi. Un gusto che contamina positivamente anche le sue esibizioni live, in cui dosa con grande maestria i propri brani originali e le sue cover più famose.

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Il fresco country “valdostano” di Mikol Frachey

La cover dell'album di Mikol Frachey

La cover dell’album di Mikol Frachey

È sempre un piacere poter godere della musica di giovani artisti italiani, che seguo sempre con simpatia. È un piacere ancora più grande poterne scriverne. Ed è un piacere enorme poter scrivere di artisti che ho avuto la gioia di conoscere e che quindi seguo con ancora più affetto nella loro avventura nel complicato mondo della discografia. È questo il caso di Mikol Frachey, giovanissima cantautrice che ho avuto la fortuna di poter ascoltare diverse volte dal vivo e che poche settimane fa è uscita con il suo primo album, intitolato col suo nome. Un album in cui spiccano la splendida voce della diciannovenne valdostana e una sonorità del tutto inusuale nelle produzioni made in Italy: un country che affonda le radici nei suoni caratteristici della tradizione americana, ma sapientemente declinato secondo i dettami della modernità.
Ma cosa lega le sonorità di Nashville e i dolci pendii intorno a Saint-Vincent? Non possiamo nemmeno pensare alla “West Virginia, mountain mama” di John Denver perché i riferimenti stilistici di Mikol sono altri, come è giusto che sia e come si conviene a una ragazza di diciannove anni.
Ecco allora che l’esperienza country a cui si ispira la Frachey è quella moderna e in qualche modo “contaminata” di artiste come Carrie Underwood e Gretchen Wilson, Shania Twain e, soprattutto, Taylor Swift, che viene citata in maniera implicita ed esplicita a più riprese tra le tracce dell’album. Una contaminazione da intendere nel senso più nobile del termine: quella in cui le canzoni, grazie a produzione e arrangiamenti che strizzano l’occhio all’attualità, diventano semplicemente più fruibili, mantenendo tuttavia intatte le caratteristiche e i suoni della musica country e, cosa molto importante, senza mai scivolare nel banale pop da classifica. Emergono allora altri riferimenti importanti, a loro volta frutto di contaminazioni, tipici di una millennial che ascolta musica contemporanea: dal raffinato pop-folk di Ed Sheeran al country-pop di Sam Hunt, con sfumature che riportano alle venature maggiormente rock di John Mayer.

Non a caso, Mikol non solo scrive interamente e interpreta i sui pezzi, ma suona anche splendidamente la chitarra (acustica, elettrica e dobro), aspetto che si evince chiaramente già in fase di scrittura, così che il suo approccio country si definisce fin dall’ispirazione; come prova di tutto questo basta ascoltare, in rete, la versione dal vivo del singolo Give Me Water, solo voce e chitarra. Sono poi  l’arrangiamento e la produzione a miscelare sapientemente strumenti tipici della tradizione americana (chitarra dobro, armonica, banjo, fiddle) e suoni più moderni e contemporanei. Suoni che vedono le chitarre sempre in primo piano, a tratti addirittura rockeggianti: si pensi all’assolo finale dell’ottima Budweiser, il brano sicuramente più rock dell’album, ma anche alla struttura di Blind, con arpeggi quasi brit-pop, diverse parti di chitarra stoppata e una batteria a tratti molto potente.
Tuttavia Mikol non si limita certo a scimmiottare meccanicamente esperienze altrui, ma le rielabora e le fonde con la sua sensibilità per creare una musica personale e originale. Gli elementi di punta sono infatti il suo ottimo songwriting, semplicemente incredibile per una ragazza della sua età, e un minuzioso lavoro di studio per trovare a ciascun brano il vestito giusto. In questo senso la nuova versione di Give Me Water è già una dichiarazione d’intenti: il nuovo arrangiamento alza di una tacca tutti i suoni più riconducibili al country e aggiunge nuovi elementi distintivi, dalla batteria che sembra trottare, ai cori di background, dal fiddle al flauto. Una rivoluzione artistica rispetto ai suoni del singolo e del relativo video, probabilmente dettata dall’esigenza di dare coerenza stilistica all’album.

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Francesca Michielin, voce incantevole e talento purissimo

Francesca Michielin sul palco del Campus (foto Gazzetta di Parma)

Francesca Michielin sul palco del Campus (foto Gazzetta di Parma)

Cosa dire di un concerto che si apre con le sequenze, gli effetti e i beat elettronici di Battito di ciglia e si chiude con l’inconfondibile riff di chitarra di Whole Lotta Love? La risposta è nelle parole di qualche settimana fa della stessa Francesca Michielin, all’atto della presentazione del di20are Tour che ha fatto tappa al Campus Music Industry di Parma lo scorso 22 ottobre: «Mi sta molto a cuore il concetto di tesi-antitesi-sintesi – ha spiegato la cantautrice di Bassano del Grappa – mentre quella del Nice To Meet You Tour è stata solo un’antitesi perché mi ha dato la possibilità di stravolgere completamente il mio repertorio, rendendolo più scarno, e alcuni brani ne sono usciti trasformati».

Il riferimento è al tour precedente, che vedeva Francesca protagonista di uno spettacolo intimo e minimale in cui si trovava da sola sul palco alternandosi tra chitarra, pianoforte, timpani e loop station, con il risultato di stravolgere significativamente diversi pezzi rivisitati necessariamente in chiave acustica. In questo nuovo show, Francesca è invece accompagnata da una vera band di quattro elementi (i giovanissimi Eugenio Cattini – chitarra, Luca Marchi – basso e Maicol Morgotti, batteria, ottimamente diretti dal “direttore musicale” e tastierista Luchi Ballarin) che regalano un suono ben più potente (non solo nella citata cover dei Led Zeppelin) e moderno, arricchito com’è dai drum pad, dalle sequenze e da una ampia gamma di effetti su strumenti e voce.

Ecco, se proprio vogliamo trovare qualcosa che non convince è proprio il secondo microfono effettato che Francesca alterna con quello “pulito”: non so se sia trattato di un problema tecnico o della posizione in cui mi trovavo ma degli effetti si sentiva veramente poco, se non nulla. Ma a prescindere da questo, l’ambizioso piano della Michielin di mettere insieme tutte le sue anime, i suoi riferimenti musicali anche quando sembrano essere in palese contraddizione tra loro e trovarne la sintesi è perfettamente riuscito. Da una parte, si diceva, una precisa e approfondita ricerca sonora per trovare il vestito giusto per ogni pezzo con un evidente maniacale lavoro di studio, poi trasposto nei live grazie alle sequenze, dall’altra la passione per il ruvido suono rock’n roll. Da un lato un lavoro di songwriting incredibilmente maturo per una ragazza di appena 21 anni, dall’altro straordinarie doti di cantante pura (d’altra parte non si vince X Factor a 16 anni se non si sa cantare) nell’interpretare i pezzi scritti per lei da autori importanti, Elisa su tutti, e nel rileggere con personalità e originalità cover mai banali, a dimostrazione di una cultura musicale ben sopra la media non solo di una giovane ragazza della sua età, ma anche di musicisti ben più scafati di lei.

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Florence Welch incanta Bologna

Florence Welch sul palco della Unipol Arena

Florence Welch sul palco della Unipol Arena

Travolgente, ipnotica, istrionica, sensuale, teatrale, folle, esuberante, intensa. Non è facile descrivere con aggettivi il personaggio, ma soprattutto l’artista, Florence Welch, senza dubbio il fenomeno più interessante che la musica britannica, e non solo, ci ha proposto in questi ultimi anni. Si può però provare a farlo utilizzando due immagini, due flash: i primi fotogrammi dello spettacolo entusiasmante che la rossa londinese ha regalato a una Unipol Arena gremita, insieme alla band che con lei forma i Florence and the Machine. Nel primo fotogramma, dopo l’ingresso della band, Florence entra in scena puntualissima in un lungo abito turchese pieno di svolazzi e trasparenze e a piedi nudi come da tradizione, si posiziona davanti al microfono e sposta una mano nell’aria con un gesto teatrale; l’arena esplode. Nel secondo fotogramma, invece, attacca il primo pezzo della scaletta ed il pezzo è What The Water Gave Me (peccato che non sia stata seguita dal suo naturale prolungamento Never Let Me Go) cioè il manifesto che riassume in un solo brano il suo stile musicale e la sua poetica: il titolo viene da un quadro di Frida Kahlo mentre il testo è ispirato dal suicidio di Virginia Woolf che si buttò nel fiume Ouse con le tasche piene di sassi: “Lay me down, let the only sound be the overflow, pockets full of stones”. Difficile immaginare un altro artista con la stessa presenza scenica e gli stessi riferimenti culturali.

Purtroppo il suicidio e le sventure erano all’ordine del giorno in casa Welch, dove la giovane Florence dovette assistere al divorzio dei genitori, alla morte del nonno paterno in seguito a un ictus e al suicidio della nonna materna affetta da malattia bipolare. E per non farsi mancare nulla, si esibì per la prima volta in pubblico, cantando The Skye Boat Song al funerale della nonna paterna, a sua volta vittima di ictus. Normale che i temi a lei cari siano quelli ispirati al rinascimento e al romanticismo poetico: amore e morte, tempo e dolore, paradiso e inferno. E così Florence, nonostante i soli 29 anni, porta già sul volto i segni dei tanti tormenti passati, ma anche il sorriso sincero di chi in qualche modo se li è messi alle spalle, almeno fino al prossimo. Ironizzando anche su una certa passione per il vino (“Another drink just to pass the time, I can never say no” racconta in Delilah) e sulla leggenda che la vuole comporre sempre in seguito a una sontuosa sbronza.

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La crescita costante di Violetta Zironi

Violetta Zironi sul,palco di Vinitaly (© Paola Conti)

Violetta Zironi sul,palco di Vinitaly (© Paola Conti)

Dopo diversi mesi di astinenza durante i quali, per vari motivi, non ho avuto la possibilità di assistere a concerti di Violetta Zironi non mi sono lasciato sfuggire l’occasione di una doppietta in terra veneta, unita all’opportunità di abbinare due suoi concerti a un weekend tra le bellezze di Padova e Verona. Sia sul palco un po’ improvvisato dell’Osteria Barabba di Padova, sia su quello ben più strutturato di Piazza dell’Arsenale di Verona, nell’ambito degli eventi di Vinitaly and the City, Violetta si è trovata perfettamente a suo agio, esibendo un repertorio rinnovato ma come sempre fedele alle sue radici e al suo percorso musicale. E ho potuto constatare, non che ci fosse bisogno di un’ulteriore conferma, che Violetta è ormai diventata una one-girl band, in grado di reggere da sola qualsiasi palco, forte solo della sua voce, della sua chitarra e del suo ukulele.

Quella che si propone al pubblico veneto, quindi, è una Violetta già molto cresciuta e maturata rispetto a soli pochi mesi fa e la cui crescita continua inesorabile e incessante grazie alle preziose esperienze che sta collezionando in Italia e in tutta Europa: le recenti date a Berlino, Parigi e Londra; le tappe italiane, e non solo, ospite dell’amico Jack Savoretti, al cui tour continua a partecipare; le sessioni di songwriting con Pedro Vito, il chitarrista dello stesso Savoretti; le tante partecipazioni a Radio 2 Social Club con Luca Barbarossa su Radio 2.

Violetta imbraccia la sua Epiphone acustica (riducendo, giustamente, il numero di pezzi che interpreta con l’ukulele) e guida il pubblico in un viaggio lungo la strada della sua musica, che parte da radici lontane e a stelle e strisce, ma che poi approda fino ai giorni nostri, unendo il piacere della modernità al gusto per le meraviglie del passato: così country, bluegrass, blues e rockabilly si mescolano e si alternano fino a sfociare in maniera del tutto naturale nei brani originali composti da Violetta, che reinterpretano la tradizione arricchendola di elementi contemporanei, e tra cui spicca la splendida Every Little Ghost che rimane intatta in tutta la sua forza e intensità anche in versione voce e chitarra, dopo averla conosciuta nel bellissimo arrangiamento brit-pop fatto con la Social Band proprio a Radio 2.

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L’incanto della semplicità. Il live di Erica Mou al Cortile Café

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Erica Mou durante il concerto al Cortile Café

Avete presente quando siete al buffet dell’aperitivo e, dopo aver spizzicato olive, patatine, pop corn, noccioline, sedani, carote, crostini col salame, cracker col Philadelphia e, quando va grassa, quadratini di focaccia e di piadina scarsamente farcita, finalmente arriva la pizza? L’assalto delle cavallette è tale che a stento si riesce a recuperarne un piccolo trancio e mentre lo ingurgiti in due bocconi, già allunghi il collo per vedere se ne è rimasto un pezzo (pia speranza) o se ne portano ancora (arriverà, ma tra almeno venti minuti). La verità è che se sei fortunato riesci a servirti a malapena due volte, e resti lì con la voglia di pizza e l’ultimo sedano in mano e il bicchiere dello spritz vuoto, e la vita ti sembra uno schifo.

 

Bene, immaginate che la mia pizza si chiami Erica Mou (mi perdoni per questa licenza) e che per assaggiarla sia dovuto scendere fino in Puglia per averne appunto solo due piccoli bocconi: il primo nell’estate del 2014 durante un contest per giovani cantanti (Fasano Talent Festival) a Pezze Di Greco, ridente borgo nei pressi di Fasano nel brindisino. Borgo ridente sì, ma in cui per l’occasione la temperatura era scesa fino a circa quattro gradi (in agosto, in Puglia!). La seconda nell’estate del 2015 a Martina Franca con (forse) un paio di gradi in più, ma dopo un violento temporale che stava per mandarmi malinconicamente a casa, in T-shirt e bermuda e senza ombrello, se non fosse stato per il baracchino dei panini con le bombette che mi aveva aiutato ad ingannare l’attesa mentre i poveri, efficientissimi e volenterosi organizzatori dell’evento asciugavano l’asciugabile e mettevano in sicurezza tutti i collegamenti elettrici inopinatamente allagati. In quel caso, quale premio per la mia costanza, ottenni la mia prima foto con Erica, documentata qui di seguito.

EricaMat

In entrambi i casi, comunque, avevo assunto solo piccole dosi omeopatiche di Erica (5/6 brani, venti minuti circa per ciascuno spettacolo) restando, per l’appunto, con la voglia. La voglia di qualcosa di bello e di buono che sei riuscito appena ad assaggiare ma di cui ambisci all’indigestione. D’altra parte iniziavo anche a temere che la presenza contemporanea mia e di Erica nello stesso posto creasse particolari congiunzioni astrali tali da rendere possibili, se non probabili, eventi atmosferici di scarsissima frequenza, quali per esempio una nevicata alle Bahamas. Per questo mi sono accostato con una certa prudenza alla sua data in programma a Bologna (al nord) e per di più a gennaio (in inverno), temendo come minimo una muraglia di due metri di neve sull’intera A1, o per lo meno da Milano a Orte. Ma la voglia di mangiarmi la pizza intera (finalmente un suo concerto completo) ha prevalso su tutti i timori legati alla generazione involontaria di catastrofi naturali e ancora una volta, la scelta è stata premiata.

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Tenete un posto per Erica Mou

Erica Mou durante uno dei suoi showcase

Erica Mou durante uno dei suoi showcase

Se cercate un facile ritornello sanremese, leggero ed orecchiabile con una bella rima baciata da fare invidia a Eros Ramazzotti, non ascoltate Erica Mou. Se cercate un’altra cantante pop identica alla precedente, alla perenne ricerca della nota più alta, più lunga, più potente dentro a una canzone fotocopia, non ascoltate Erica Mou. Se cercate una ragazza copertina che fa parlare di sé per il look, per i flirt e per il gossip più che per la sua musica, non ascoltate Erica Mou. Se cercate Erica Mou sui grandi network radiofonici o nei principali programmi televisivi non la troverete. Ma cercatela altrove, perché ne vale la pena. Ed il suo ultimo lavoro Tienimi il posto chiarisce il concetto una volta per tutte, anche per i più difficili da convincere.

L’abbiamo apprezzata nel 2012 a Sanremo con la sorprendente Nella vasca da bagno del tempo, terza classificata nella sezione Giovani dopo aver collezionato tutti i premi della critica possibili, una canzone di una maturità sorprendente per una ragazza di 22 anni quale era Erica all’epoca e in cui espressioni solo apparentemente poco liriche come “lobi a penzoloni” trovano invece una perfetta collocazione poetica in un testo profondissimo e sorprendentemente adulto. Ce ne siamo definitivamente innamourati (così si chiama la sua fandom) l’anno successivo con l’album della consacrazione Contro le onde e soprattutto con il capolavoro Dove cadono i fulmini, la splendida sintesi di un lavoro in gran parte ispirato dal mare e ad esso dedicato. Ora, a due anni di distanza e dopo aver chiuso il rapporto con la Sugar di Caterina Caselli, la cantautrice di Bisceglie torna con il suo quarto album, ancora più maturo, ancora più intimo, ancora più personale grazie alla produzione curata dalla stessa cantante insieme con i suoi musicisti e collaboratori, un album quindi totalmente indipendente per il quale il MEI le ha attribuito un premio come prima cantautrice indie nella Top 25 dei dischi più venduti in Italia, proprio grazie a Tienimi il posto.

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