Archivio mensile:Ottobre 2014

X Factor 8, primo live show. È Mario il migliore.

Mario Gavino Garrucciu sul palco delle audizioni

Mario Gavino Garrucciu sul palco delle audizioni

La mia posizione sui talent show, o meglio su X Factor, è stata ampiamente espressa nell’articolo che racconta di come mi sono innamorato del talento di Violetta. Un “colpo di fulmine artistico” che ha avuto come effetto collaterale quello di farmi appassionare al programma che quindi ho iniziato a seguire e che seguo anche ora che, ahimé, non c’è più lei. Ogni settimana, pertanto, presenterò “il mio personalissimo cartellino” (cit. Rino Tommasi) con le mie impressioni sulle esibizioni dei talenti in gara. E  visto che siamo tutti un po’ professori, non mi esimerò dal mettere anche il voto in pagella.

 

Emma

Blurred Lines – Robin Thicke

C’è da dire che X Factor 8 parte alla grandissima. Emma non delude le alte aspettative con un pezzo probabilmente scelto apposta per metterne in risalto l’approccio ironico, già emerso con la sua divertente interpretazione di Pop porno ai boot camp. Presenza scenica di prim’ordine, si vede che è abituata a calpestare il palcoscenico, Emma rivisita un brano leggero e vagamente maschilista, reinventandone completamente il testo da un punto di vista femminile, e riuscendo comunque a far emergere le sue qualità vocali spaziando senza problemi dai bassi ai falsetto di Thicke. Da rivedere comunque con canzoni più impegnative e performance più intense.

Voto: 8

 

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Camila Giorgi. Destinazione Top Ten?

Camila Giorgi in azione durante il torneo di Linz

Camila Giorgi in azione durante il torneo di Linz

Con l’ultimo torneo appena disputato a Mosca, si è conclusa la stagione 2014 di Camila Giorgi, una stagione impreziosita dalle prime due finali WTA, anche se purtroppo la prima vittoria nel circuito principale non è invece arrivata. Il bilancio 2014 è comunque più che positivo: Camila chiude la stagione al numero 35 del ranking mondiale (a fine 2013 era 93) con buone chance di ottenere una testa di serie ai prossimi Australian Open, nonostante il saldo pesantemente negativo in termini di punti degli US Open: primo turno nel 2014 contro il quarto turno nel 2013. Inoltre Camila mette nel suo palmarés due finali WTA, il suo best ranking al numero 31 il 25 agosto, l’esordio in Fed Cup e alcuni scalpi eccellenti come quelli di Maria Sharapova  (Indian Wells), Dominika Cibulková (Roma), Vika Azarenka (Eastbourne), Caroline Wozniacki (New Haven) e Andrea Petković (due volte), oltre alle connazionali Pennetta e Vinci.

Personalmente, ho iniziato a conoscere Camila grazie al suo exploit a Wimbledon 2012, quando si aggiudicò sei match di fila, partendo dalle qualificazioni e fermandosi agli ottavi di finale, sconfitta solo da Agnieszka Radwanska, numero tre del seeding, dopo aver battuto tra le altre Flavia Pennetta e Nadia Petrova. Cominciai a seguire i suoi tornei e, come spesso mi accade, fui subito conquistato dalla sua apparente contraddizione: da una parte il suo aspetto dolce e delicato e dall’altra, a fare da contraltare a tutta questa grazia, una potenza e una forza atletica rara nello sport femminile. Se Camila da ferma sembra una modella, in gioco è un fascio di nervi e muscoli pronti a esplodere colpi al fulmicotone con anticipi degni del primo Agassi.

La sua condotta di gara, sempre spregiudicata al limite dell’incoscienza, è insieme la sua forza e la sua debolezza, ma la sua crescita in risultati e in ranking denota un netto miglioramento nella sua capacità di leggere gli incontri e i singoli scambi: già negli ultimi tornei dell’anno si è notato un deciso decremento del numero dei doppi falli per match (da sempre uno dei punti deboli di Camila) pur senza perdere incisività nella seconda di servizio; si sono visti finalmente winners giocati in un’area di sicurezza un po’ più ampia rispetto ai tre centimetri dalla riga cui ci aveva abituati, si è delineata un’ottima tenuta mentale in situazioni complicate come gli ultimi game del secondo set a Mosca contro la Pennetta, recuperando da 0-40 sul 4-3 e mettendo cinque prime nel gioco conclusivo. Tralasciando, ovviamente, il disastroso quarto di finale disputato sempre in Russia contro la giovanissima Kateřina Siniaková: un’antologia di ciò che invece Camila non deve fare.

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“My name is Wolf, and I solve problems” – 20 anni di Pulp Fiction

pulpfiction

John Travolta (Vincent Vega) e Samuel L. Jackson (Jules Winnfield) in una sequenza

“The path of the righteous man is beset on all sides by the iniquities of the selfish and the tyranny of evil men. Blessed is he who, in the name of charity and good will, shepherds the weak through the valley of darkness, for he is truly his brother’s keeper and the finder of lost children. And I will strike down upon thee with great vengeance and furious anger those who attempt to poison and destroy my brothers. And you will know my name is the Lord when I lay my vengeance upon thee.”                 (Ezekiel, 25:17)

 

Ricorre in questi giorni il ventesimo anniversario dell’uscita nelle sale di Pulp Fiction, il capolavoro di Quentin Tarantino che fece il suo esordio nei teatri americani il 14 ottobre 1994 e, pur amando visceralmente il cinema di Tarantino da Le Iene a Django Unchained, credo che le vette stilistiche raggiunte con “Pulp Fiction” siano in seguito solo state sfiorate, segnatamente in alcune sequenze di Jackie Brown e Bastardi Senza Gloria.

Ricordo di aver assistito alla proiezione in una sala di Bologna, dove allora studiavo, con un amico dell’epoca. Sapevo veramente poco della pellicola, al di là della Palma d’Oro ricevuta al Festival di Cannes ampiamente pubblicizzata sulla locandina, ma ero incuriosito sia dal cast stellare sia dalle prime voci che circolavano sul conto della pellicola. In sintesi, mi trovai di fronte ad un film innovativo (non avevo ancora visto “Le Iene”), spiazzante, divertente, fracassone, profondo, brillante. Ricordo altrettanto nitida mentente che alcune persone intorno a me si alzarono per lasciare la sala dopo circa 20 minuti (più o meno all’altezza del buco in vena di John Travolta / Vincent Vega) mentre io ero completamente rapito dalla storia. Anzi dalle storie.

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U2: innocenti!

 

La copertina virtuale utilizzata per iTunes

La copertina virtuale utilizzata per iTunes

Se è vero, come è vero, che la musica è tra le mie più grandi passioni, non posso non iniziare l’avventura di Bar Mat con la recensione di un album fresco di stampa, e la scelta è ovviamente caduta su Songs Of Innocence, dal momento che il web trabocca di presunti critici musicali e che ormai spalare guano a badilate sugli U2 e soprattutto su Bono sembra essere diventato il più diffuso passatempo mondiale. E chi sono io per tirarmi indietro?Mi sono preparato coscienziosamente, ascoltando l’album almeno una cinquantina di volte e leggendo in rete le recensioni più disparate, da quelle fin troppo entusiastiche come quella di Rolling Stone a quelle al limite, e certe volte oltre, dell’insulto. Anche se poi, scavando con attenzione, tra un insulto e l’altro, arriva sempre un però: “però Every Breaking Wave…”, “però Sleep Like A Baby Tonight…”, però The Troubles…”. Roba che a mettere in fila tutti i “però” vien fuori invece che è un discone.

Ora, il mio punto di vista non è quello di un critico musicale (non ne ho la capacità né le comptenze) ma quello di un fan. Un fan che come molti detrattori non ama particolarmente Bono in versione guru, ma che in un’ottica strettamente musicale ritiene gli U2 la più grande rock band dell’era moderna. Dove “grande” non è una mera misura dei milioni di copie vendute, ma piuttosto la miscela perfetta di songwriting accattivante e diretto (ruffiano? Anche ruffiano, che male c’è?), maniacale ricerca sonora, tecnica tout-court (con buona pace dei tanti detrattori di The Edge), talento e abilità nelle performance live.

Seguo gli U2 “ufficialmente” dal 1987, The Joshua Tree, il giro di basso dritto di With Or Without You: quattro accordi basici con la tonica in ottave, la cosa più semplice del mondo, eppure funziona. Sopra, l’effetto E-Bow dell’infinite guitar di The Edge su uno dei primi loop di batteria che sentivo in un disco rock. Fu amore a prima vista e con Achtung Baby la cotta divenne innamoramento vero. Certo, prima c’era stata Pride e mi ricordo bene il video in bianco e nero su Deejay Television, e ore a chiedermi perché si chiamasse “Pride” quando il ritornello ripeteva ossessivamente “in the name of love”, e finalmente sul giornalino Tutto – Musica e Spettacolo trovai il testo e la parolina “pride” in fondo all’ultima strofa, e me la tradussi e cercai chi mai fosse stato Martin Luther King. Ma avevo solo 10 anni, e la musica si miscelava tutta in un unico grande frullatore, gli U2 con gli Wham!, Vasco Rossi con Nada. In seguito, dopo Achtung Baby, avrei recuperato The Unforgettable Fire e tutta la prima produzione dei quattro di Dublino. Continua a leggere