Non sono tra quelli che si sono sorpresi del successo di Quo Vado?, l’ultimo lungometraggio di Checco Zalone che sta abbattendo a suon di milioni tutti i record del cinema italiano; piuttosto mi sono sorpreso dello stupore che ha generato, dal momento che il comico pugliese non ha mai sbagliato un colpo sul grande schermo: dall’esordio di Cado dalle nubi (14 milioni incassati) fino ai 52 milioni di Sole a catinelle (il film italiano più visto della storia, prima di Quo vado? ovviamente) passando per i 43 milioni di Che bella giornata. Insomma, visti i precedenti e la tendenza a una crescita esponenziale, per lo meno a livello di box office, il clamoroso successo del quarto film dell’attore barese dovrebbe essere tutto meno che inatteso.
Invece, dopo i 14 milioni e mezzo incassati già nei primi due giorni, mezzo Paese si è stupito ed interrogato sulle ragioni di questo exploit. Anzi, per essere più precisi, mezza Italia si è decisamente indignata per le cifre stellari realizzate da Checco, partendo coi soliti pistolotti sul basso livello culturale del popolo italiano, ipotizzando l’imminente fine della nostra millenaria civiltà a causa della partecipazione di massa a una tale banale commediola di terz’ordine. D’altra parte, a proposito di Checco Zalone, è tornato di moda più che mai uno degli aforismi più abusati della storia, quello attributo ad Enzo Ferrari: “Gli italiani ti perdonano tutto, tranne il successo”. Ma nella fattispecie la frase è quanto mai calzante, poi, visto che gli italiani oltre a non perdonare il successo, amano in modo particolare dividersi su tutto: calcio, politica, donne, musica, motori e chi più ne ha più ne metta, non si sono certi fatti mancare l’occasione di schierarsi anche in questo caso in due fazioni contrapposte: da una parte l’intellighenzia dei “salotti buoni” a strapparsi i capelli sdegnata, vaticinando la fine del cinema italiano, dall’altra gli ultra-zaloniani a difendere il proprio idolo con sberleffi e pernacchie.
Checco Zalone è stato, in primo luogo, accusato di essere un prodotto televisivo, dove per televisivo si intende ovviamente prodotto Mediaset, sia per il primo successo del grande pubblico avvenuto grazie alle ospitate di Zelig, sia per la produzione e la distribuzione del film, targate Taodue e Medusa. Chiaro che in centri ambienti “culturali” (le virgolette sono d’obbligo), ancora affetti dal tic dell’anti-berlusconismo militante e viscerale proprio come l’ultimo giapponese che ancora non sa, o non ha capito, che la guerra è finita, la cosa sia vista con estremo fastidio. Va da sé che tali ambienti non si sono mai sognati di dare del televisivo alla loro musa ispiratrice Roberto Benigni (giusto per fare un esempio) che pure, molto più di Zalone, in TV ci è nato davvero.
Si è detto che Quo Vado? è il simbolo dell’italietta piccola e provinciale, ripiegata su sé stessa e che un film del genere non avrebbe mai potuto essere esportato al di là delle Alpi. Ammesso e non concesso che rivolgersi al pubblico domestico sia necessariamente un difetto, l’acchiappaquartieri nostrano sta invece suscitando vivo interesse all’estero proprio per l’eccezionalità del risultato del botteghino. E a quanto anticipa il produttore Pietro Valsecchi, in alcuni Paesi stranieri il film uscirà eccome, in lingua originale. Mentre ci sono trattative riguardo i diritti di remake con Spagna, Francia e Inghilterra, non solo per una cessione dei diritti ma anche per una coproduzione.
È stato poi rimarcato che è facile raggiungere tali numeri quando il film è distribuito in 1250 sale in tutta Italia, come se gli esercenti avessero ricevuto minacce mafiose da parte di Medusa purché proiettassero Quo vado? al posto, suppongo, di qualche capolavoro del cinema d’autore italiano, ingiustamente sacrificato sull’altare della logica del box office. Ma anche ammesso che sia così, gli esercenti sono a tutti gli effetti piccole aziende che tendono al profitto, quindi a proiettare i film che li fanno guadagnare, piuttosto che a fare beneficenza a qualche genio sconosciuto con la sala vuota. D’altra parte gli stessi esercenti hanno smentito questa ricostruzione, un classico caso di inversione del rapporto causa – effetto, spiegando che la pellicola è stata distribuita in 1250 copie perché loro tante ne hanno chieste, forti dell’esperienza dei tre film precedenti, e se fosse stato possibile ne avrebbero volute anche di più.
Probabilmente, invece che preoccuparsi del numero di copie di Quo vado? e del presunto assassinio della commedia italiana perpetrato da Zalone, in certi salotti farebbero meglio a interrogarsi sul perché esista da almeno vent’anni un circolo chiuso comprendente gli stessi venti-trenta attori (alcuni pure bravi, per carità) e gli stessi cinque registi che mischiandosi e distribuendosi in tutte le formazioni possibili, sfornano ogni sei mesi la stessa, ripetitiva, inguardabile commedia, con sceneggiature imbarazzanti e trionfi di product placement a casaccio. Questo sì che uccide la commedia italiana, ma evidentemente agli amici degli amici degli amici sta bene così.
Ma qual è allora il segreto di Checco Zalone? In realtà i segreti sono più di uno, ma sono tutti di una ovvietà sconcertante, tanto da non meritare, con ogni probabilità, di essere definiti segreti, né tutta l’attenzione che ha suscitato nei vari dibattiti televisivi e nelle discussioni su carta stampata e, soprattutto, siti internet e blog. Tanto per cominciare Checco Zalone è un comico che fa ridere, e per quanto la circostanza possa sembrare scontata, non lo è per niente, in un panorama del cinema di intrattenimento (ma anche della televisione, se è per questo) che ci propone (ancora) i Salemme, i Pieraccioni e i Panariello. E fermiamoci qua per carità di patria. Di più, la comicità di Zalone (evidentemente di grana grossa, non stiamo certo parlando di Woody Allen, anche se nel tempo il linguaggio e le gag si sono decisamente raffinati) riesce comunque ad intercettare un pubblico eterogeneo, che comprende sia gli amanti della gag fisica e dell’equivoco tirato per i capelli (quello di Boldi, De Sica e dei cinepanettoni per intenderci), sia gli appassionati di prodotti di livello più alto, quelli che amano il cabaret e gli stand-up comedian, che sono andati a vedere gli spettacoli di Checco a teatro o all’Arena di Verona (come me), e che lo hanno apprezzato anche come imitatore, pianista e cantautore demenziale.
Il risultato è una commedia decisamente più sofisticata di quanto si possa pensare, perché se è vero che il soggetto e la sceneggiatura sono semplici canovacci (per niente banali, tuttavia) su cui inserire le brillanti gag di Checco, unico e incontrastato protagonista della scena, e che la regia dell’amico e co-sceneggiatore Gennaro Nunziante fa di tutto, come è logico, per essere la più pulita ed invisibile possibile, a una lettura più profonda si possono cogliere le ombre di una tagliente satira di costume. Che appare del tutto evidente quando, proprio nel momento in cui sembra buttare tutto in vacca trasformando il film in un musical, Checco celentaneggia cantando La prima repubblica, e chi ha l’accortezza di ascoltare con attenzione il testo non può non fermarsi a riflettere, almeno per un secondo.
E così, tra una gag e l’altra, si può permettere (unico in Italia!) di fare battute sugli omosessuali e sulle famiglie un po’ troppo allargate e multietniche fottendosene allegramente del politically correct (alleluia!) e al tempo stesso sbeffeggiare gli usi e i costumi dell’Italia più retriva di cui il suo personaggio (ma non Luca Medici, attenzione!) è l’incarnazione vivente. Ecco allora il quarantenne ancora attaccato alla gonna della mamma, come e più al posto fisso, che non si capacita di come un uomo possa lavare le finestre o di come si possa aspettare pazientemente in coda, in un ufficio come a un semaforo, senza appiccicarsi al clacson. Zalone, nella stessa sequenza, riesce a fustigare gli estremi opposti di certe visioni del mondo, ponendosi, qualcuno direbbe democristianamente, esattamente nel mezzo, ma non tanto per meschina equidistanza, quanto per poterli osservare e deridere meglio, da lontano.
Infine, c’è la grande intelligenza, nonché l’astuzia dell’avvocato Luca Medici, cioè l’alter ego ma anche il deus ex machina di… sé stesso: Checco, al di là del suo innegabile talento, conosce perfettamente i meccanismi dello show-business (in questo mi ricorda Cesare Cremonini) e sa bene che la cosa peggiore che potrebbe fare per la sua carriera sarebbe inflazionare la sua immagine. Quindi niente televisione, niente spot pubblicitari, niente Sanremo (ha recentemente dichiarato di aver rifiutato l’invito di Carlo Conti), nessuna ospitata promozionale nemmeno per Quo vado? (a parte quella a Che tempo che fa), a differenza dell’accolita dei trenta attori di cui sopra (in particolare se targati Filmauro), in costante pellegrinaggio da un programma televisivo all’altro per promuovere il loro ultimo lavoro da Oscar. La capacità di saper creare aspettativa e “voglia di Zalone” semplicemente con l’assenza è una dote non da tutti, e Checco la sa sfruttare alla grande.
Insomma, di certo Gennaro Nunziante non sarà il nuovo Monicelli, né Checco Zalone il nuovo Tognazzi, ma nell’attesa (temo vana) che si palesino all’orizzonte i nuovi maestri della commedia italiana, io sto con Checco.