Per chi, come me, ha studiato comunicazione negli ahimè ormai lontani anni ’90 esisteva (ed esiste ancora) un testo fondamentale intitolato No Sense of Place: The Impact of Electronic Media on Social Behavior, tradotto quasi fedelmente in Oltre il senso del luogo e scritto dal professore di comunicazione e mass-mediologo americano Joshua Meyrowitz nel 1986. Ricordo che la prima cosa che mi colpì del libro fu che il suo autore era ben lungi dall’essere due metri sotto terra come accadeva abitualmente con i testi del liceo, dal momento che all’epoca (1994) il buon Meyrowitz era una giovanotto di 45 anni vivo e vegeto.
Nel libro Meyrowitz prova, con successo, a descrivere gli effetti sociali dei nuovi media elettronici, concentrandosi sulla televisione, in modo in un certo senso obbligato considerando l’epoca. In estrema e ingenerosa sintesi di un’opera corposa e articolata, il testo parte dall’evidente esempio fornito dal mezzo televisivo per descrivere come le tecnologie della comunicazione iniziassero a influenzare le relazioni sociali che intratteniamo quotidianamente. La tesi proposta, combinando gli studi sociologici di Erving Goffman sulla presentazione del sé nella vita di tutti i giorni come una performance teatrale a più spazi (back-stage e front-stage) con quelli massmediologici di Marshall McLuhan, sostiene come la televisione abbia comportato una svolta verso relazioni sociali nuove ed egalitarie, in quanto macchina in grado di “esporre segreti” che dà pertanto la possibilità di osservare le persone da un punto di vista totalmente nuovo.
In ultima analisi, i nuovi media come la televisione hanno garantito l’accesso a informazioni precedentemente riservate con l’effetto immediato di rimuovere barriere, soprattutto tra bambini e adulti, uomini e donne, persone comuni e potenti. I bambini, per esempio, accedono più facilmente a contenuti destinati agli adulti venendo a mancare il controllo genitoriale sui testi scritti e sulle immagini (molto prima che il parental control apparisse sugli apparecchi televisivi); le donne hanno accesso a “luoghi” normalmente destinati agli uomini e viceversa; i leader politici si avvicinano alle persone, vengono umanizzati in quella che viene definita la “demitizzazione dei potenti”, una dimensione colta alla perfezione da Ronald Reagan, che proprio sfruttando le potenzialità del mezzo televisivo costruì la sua fortuna e la sua popolarità inventandosi come primo leader da “spazio intermedio”, quello spazio tra back-stage e front-stage che il nuovo medium stava rivelando agli occhi della gente.
Trent’anni più tardi la faccenda si è fatta ovviamente molto più interessante, nel momento in cui la televisione, lungi dall’essere stata pensionata, è stata però affiancata da altri media più nuovi e ancora più potenti che hanno ridotto ulteriormente le distanze tra gruppi sociali, in particolare tra persone comuni e personaggi famosi come dimostrano didascalicamente le ormai consolidate interazioni quotidiane via Facebook e Twitter tra celebrità (o presunte tali) e followers, che portano il discorso di Meyrowitz alle estreme conseguenze: il web, con la sua appendice dei social network non solo consente l’accesso a informazioni una volta riservate e mostra i potenti e i famosi in una dimensione umana e famigliare, ma mette noi stessi, comuni mortali, su un palco e sotto i riflettori quando, per scelta consapevole, decidiamo di mostrare al mondo o a un selezionato numero di “amici” (dipende dai settaggi della privacy) il nostro back-stage, attraverso foto, video, commenti, opinioni, interazioni. Fino a mettere in discussione l’identità stessa del nostro sé.
Vi ricordate quando di ritorno dalle prime vacanze estive senza genitori e in compagnia degli amici, il racconto del viaggio assumeva sfumature ben diverse a seconde dell’interlocutore? Ci siamo divertiti, c’è sempre stato bel tempo, no non mi sono drogato, ma sì un paio di birre, certo che ho mangiato (mamma e papà); ci siamo ammazzati di canne e gin tonic, non siamo mai andati a dormire prima delle sette di mattina e abbiamo trovato tre tedesche con cui ci siamo chiusi in casa per gli ultimi tre giorni (amici); sì discoteche carine, belle spiagge, ma senza di te non era la stessa cosa, mi sei mancata tanto micina (fidanzata).
Le nostre varie identità sociali, un po’ romanzate nell’esempio di cui sopra, sono ovviamente preesistenti ai nuovi media, tanto alla televisione quanto ai social network: abbiamo l’abito dell’amico, l’abito del figlio (e poi del padre o della madre), l’abito del fidanzato (e poi del marito o della moglie), quello del collega d’ufficio, quello del portiere del calcetto e tanti altri abiti quanti sono i nostri interessi e le nostre conoscenze. Ora, se penso all’idea che si può fare di me un amico che mi segue su Facebook e Twitter (i social network che utilizzo di più) avrebbe l’imbarazzo della scelta tra le varie maschere che assumo (che poi, nel mio caso, corrispondono esattamente a quelle della mia vita reale, ma non è sempre così): l’appassionato di basket, lo scrittore-wannabe, il fanatico di musica, l’amante di arte e letteratura, lo sportivo che segue tennis, sci e calcio, il commentatore “politico” privo di schieramento.
Purtroppo il nostro Joshua, che peraltro permane tuttora vivo e vegeto, non ha ritenuto di ampliare e aggiornare il suo lavoro alle tecnologie del terzo millennio, preferendo concentrarsi su altri aspetti delle idee di “luogo” e di “identità” nel suo testo The Rise of Glocality: New Senses of Place and Identity in the Global Village in cui introduce il concetto di “glocalità” laddove il vissuto quotidiano, necessariamente e fatalmente locale, si inserisce nel villaggio globale che le nuove tecnologie hanno creato. Ma anche in questo caso gli spunti di riflessione per una nuova interpretazione delle relazioni sociali non mancano.
I media – ci spiega – hanno espanso la portata delle nostre esperienze: intratteniamo relazioni sociali con persone che non ci sono fisicamente vicine (talvolta che nemmeno conosciamo, aggiungo io) e spesso ciò avviene a discapito di altre persone che invece vivono quotidianamente insieme con noi, e già questo di per sé crea un corto circuito sociale, plasticamente rappresentato dalle coppiette al ristorante che, pur essendo fisicamente nello stesso posto, sono invece impegnate in interazioni sociali con chissà chi via smartphone.
In più, è vero che i media consentono di osservare il mondo da un punto di vista ulteriore rispetto alla nostra comunità locale, grande o piccola che sia, offrendo nuovi schemi di comprensione e di interpretazione del mondo che, in una visione ottimistica del fenomeno, dovrebbero ampliare le nostre vedute. Ne consegue anche, però, che possiamo a questo punto vivere in un posto senza veramente farne parte, che possiamo assumere qualsiasi identità sociale una volta che siamo loggati dietro a uno schermo di computer e all’interno di una community; una community, tuttavia, che nella maggior parte dei casi ci siamo creati a nostra immagine e somiglianza e che pertanto fatalmente rischia di restituirci un’interpretazione del mondo ancora più limitata di quella che poteva garantirci il nostro paesello di provincia, se ci scegliamo le persone solo tra quelle che sono simili a noi.