Dopo sei concerti degli U2, ed esattamente 24 anni dopo il primo, uno si aspetterebbe di essere sufficientemente vaccinato contro l’overdose di emozioni che lo show di Bono e soci regolarmente regala. Tanto da decidere scientemente di restare completamente all’oscuro (e in tempi di social media si tratta di un’impresa di una certa portata) di quello che sarebbe accaduto all’Olimpico nell’unica data italiana (poi raddoppiata, certo), al di là dell’ovvia riproposizione dell’intero The Joshua Tree al cui trentennale questo tour è dedicato, e lasciarsi sorprendere dalla scaletta.
Quando dopo la splendida performance di Noel Gallagher si spengono le luci, ignoro quindi bellamente il personaggio che sulle note di The Whole Of The Moon dei Waterboys percorre la passerella, disegnata come un’ombra proiettata dal grande “albero di Giosuè” sul maxischermo, fino alla batteria posizionata sul piccolo palco in mezzo al pubblico. Almeno finché non si siede e inizia l’inconfondibile rullata di Sunday Bloody Sunday; il tempo di capire che si tratta effettivamente di Larry Mullen e dietro di lui ecco arrivare The Edge che attacca con l’altrettanto inconfondibile riff di chitarra e subito dopo entrano in scena anche Bono e Adam Clayton, che raggiungono i compagni per un primo set basico, privo di luci e immagini, fatto di puro rock’n roll, in una sorta di prologo dedicato agli anni pre-The Joshua Tree, quando la band irlandese era essenziale tanto negli arrangiamenti quanto negli spettacoli dal vivo.
Niente fronzoli, solo musica, brividi ed emozioni: senza nemmeno il tempo di respirare, il giro di basso di New Year’s Day innesca il secondo boato dell’Olimpico (e una serie di ricordi di quando ero a Verona nel 1993, fuori dallo stadio in attesa di entrare, e ascoltando il soundcheck ci rendemmo tutti conto che sarebbe stata in scaletta, ma questa è un’altra storia…), un boato che sfuma proprio alla fine del famoso giro di pianoforte, quando The Edge lascia la tastiera e imbraccia la chitarra. Ma il vero colpo al cuore, almeno per me, arriva quando sotterraneo si fa largo l’arpeggio in delay di Bad, forse il regalo più bello di tutti, di certo la lacrima in bilico sulle ciglia più vicina a cadere, ci mancava solo l’omaggio a David Bowie con un frammento di Heroes a sollevare due dita di pelle d’oca. Uno pensa di averne già abbastanza e invece i quattro, vigliacchi, ci infilano pure Pride a tradimento, e lì è lo stadio che diventa protagonista e, davvero, quanto siete belli voi del prato visti da quassù! I ragazzi suonano da padreterni combattendo contro la solita acustica ballerina dello stadio e Bono spinge di brutto, la voce non più limpida come un tempo, ma sempre potente e forse ancora più affascinante ora che fa più fatica. Ma lui non si risparmia e dà tutto quello che ha, e poi saranno cavoli di chi viene al bis di domani…
I quattro si raccolgono sul palco principale e si mettono in fila come attori di teatro a prendere la dovuta ovazione, mentre lo schermo alle loro spalle si illumina segnalando l’inizio della seconda parte dello show, quella dedicata a The Joshua Tree. E chi ha visto qualche altro concerto degli U2 (eccomi che alzo la mano), chi ha bene in mente la tracklist dell’album, sa bene cosa sta per accadere quando lo schermo diventa rosso sangue e le note basse di un sintetizzatore annunciano l’arpeggio più famoso di The Edge. Impossibile non commuoversi sull’intro di Where The Streets Have No Name, impossibile riuscire a descrivere cosa sia quell’emozione, resa ancora più incredibile dal video tridimensionale di Anton Corbijn, l’anima visiva degli U2 che ha trovato un nuovo moderno vestito a ogni brano dell’album, a cominciare proprio da qui, da quella strada senza nome che corre solitaria nel deserto.
The Joshua Tree viene eseguito integralmente e pedissequamente dall’inizio alla fine, alternando le hit clamorose che ne fanno parte come I Still Haven’t Found What I’m Looking For o With Or Without You (e qui l’Olimpico è di nuovo protagonista con una splendida scenografia formata da 40.000 cartoncini che formano l’iconico albero e il numero 30) a brani raramente o mai eseguiti dal vivo, a cui la band si accosta con umiltà. Traendone spesso versioni entusiasmanti (la trascinante In God’s Country, la commovente One Tree Hill, e soprattutto la sorprendente Exit in una versione acida che non avrebbe sfigurato tra le session di Achtung Baby) e a volte qualche incertezza come la non riuscitissima Red Hill Mining Town, con il nuovo arrangiamento con i fiati che sembra un po’ tirato per i capelli.
Ma onestamente, poco importa: la cupa e apocalittica Bullet The Blue Sky è la consueta stilettata lancinante su un cielo che sembra dover piovere sangue mentre Running To Stand Still è probabilmente il momento più intimo e toccante del set, con l’armonica di Bono che regala brividi virando al blues, proprio come l’intera Trip Through Your Wires, forse il pezzo più “americano” di un album che all’America deve molto. L’album e il secondo set si chiudono con la delicata e politica Mothers Of The Disappeared, con le madri dei desaparecidos, tema caldissimo nel 1987 e che – mi viene da pensare – sarebbe il caso accendesse una luce anche sul Venezuela di quest’anno, che dallo schermo reggono le candele, come accadeva nelle piazze di Santiago del Cile ai tempi di Pinochet o di Buenos Aires ai tempi di Videla.
Ce ne sarebbe, ancora una volta, abbastanza. Invece i ragazzi lasciano solo per pochissimi minuti il palco e si preparano alla terza fase del concerto, quella post-The Joshua Tree, con un viaggio negli anni ’90 e 2000 quando la band, tra le prime, inizioò a unire l’aspetto visivo a quello musicale, a partire proprio dal rivoluzionario Zoo Tv Tour del 1993, quello della mia prima volta a Verona, eccetera.
Così dopo l’immancabile parentesi sociale, in questo caso un video di una giovanissima ragazzina siriana che racconta dal maxischermo dei suoi sogni, della sua vita, del suo futuro pieno di incognite, ecco un’intensa Miss Sarajevo (Syria is the new Bosnia…) con la voce registrata di Luciano Pavarotti di cui, questa volta, Bono rinuncia a interpretare la parte. Subito è il momento di scattare in piedi (almeno i pochi ancora seduti) e ballare sul ritmo di un trittico di adrenalina rock allo stato puro: prima Beautiful Day, poi Elevation e infine la travolgente Vertigo (con un altro omaggio a Bowie con un estratto di Rebel Rebel) che scuotono lo stadio in una spettacolare coreografia di mani, trascinata dalla versione rock-anni-2000 della band di Dublino. E lì mi chiedo se sia più bello guardare lo spettacolo del prato dalla tribuna o se sarebbe più bello essere laggiù in mezzo.
Il finale è dedicato a un altro album simbolo della band, quell’Achtung Baby che compirà a sua volta 30 anni nel 2021 e chissà che i ragazzi non stiano pensando a un altro regalo per quell’estate. The Edge, per la serie “Anche gli dei sono umani” litiga con l’accordatura della sua chitarra fino a farsela sostituire e a ripartire daccapo con l’intro di una tiratissima e inattesa Ultra Violet che Bono dedica a tutte le donne che “illuminano il nostro cammino”, mentre sugli schermi scorrono le immagini di grandi donne del passato e del presente. È poi l’immancabile e inevitabile One, «possiamo essere in disaccordo su quasi tutto se la sola cosa sui cui concordiamo è abbastanza importante», a chiudere il cerchio, con la sua carica simbolica in rappresentanza di tutte le battaglie portate avanti dalla band: dalla cancellazione del debito alla lotta all’AIDS fino alla sensibilizzazione sul tema dei diritti civili, da Nelson Mandela ad Aung San Suu Kyi.
La chiusura, decisamente a sorpresa, almeno per me, è con The Little Things That Give You Away, brano inedito tratto dal nuovo album Songs Of Experience dato in imminente uscita già a fine anno o al più tardi a inizio 2018. Un brano al primo ascolto molto bello con una struttura simile alla stessa One o a With Or Without You con un notevole crescendo finale.
Uno spettacolo di un’intensità mozzafiato che ha mostrato la capacità della band di unire le sue anime in un unico show, trovando la via per un fluire lineare di suoni totalmente diversi eppure perfettamente coerenti, dove lo sguardo al passato è assolutamente privo di nostalgia, caso mai pieno di tanto affetto, con un occhio rivolto alle proprie pietre miliari e uno al futuro. Chiarendo con un concerto epico il motivo per cui gli U2 sono ancora e nonostante tutto la più grande band del pianeta, e ribadendo che forse non è davvero il caso di “mettere le proprie le vite nelle mani di una rock’n roll band” come suggeriva Noel Gallagher poche ore prima, ma si può tuttavia affidarsi a lei almeno per un paio d’ore, per uscire da uno stadio rappacificati con quel mondo che tanto, canzoni o no, non potremo cambiare.