E così con la notte, da 60 punti, che ha tolto Kobe Bryant dal parquet per consegnarlo definitivamente alla storia, si è conclusa la regular season 2015-2016 NBA e da domani partirà la caccia al trono di Steph Curry e dei suoi Golden State Warriors, da oggi franchigia-record di tutta la storia della lega. 1230 partite in poco più di cinque mesi, per qualificare ai playoff più della metà delle partecipanti: questo è il tributo che questi superatleti devono pagare alle televisioni, quelle che finanziano i loro ricchi contratti, dalla prossima stagione ancora più ricchi.
1230 partite che però questa volta hanno regalato agli appassionati quella che è stata e che sarà ricordata per moltissimi anni come la stagione dei record, per lo meno sulla West Coast: history in the making è stata la frase ricorrente che ha accompagnato questi mesi, cominciati con il record della striscia vincente iniziale degli Warriors (24-0) che ha surclassato quello che condividevano Houston Rockets 1993-94 e Washington Capitals 1948-49 (15-0), e terminati con la vittoria su Memphis che, proprio all’ultimo respiro, ha consegnato a Steph Curry e compagni il miglior record di sempre in regular season (73-9), strappandolo ai leggendari Chicago Bulls 1995-96 di Michael Jordan. In mezzo, una striscia di 54 gare consecutive vinte tra le mura amiche della Oracle Arena, anche questo record all-time.
E, parlando di mura amiche, ecco un altro record stabilito dai San Antonio Spurs all’ombra dell’Alamo: miglior partenza casalinga di sempre nella storia dell’NBA (39-0) e miglior record casalingo (40-1) in comune con un’altra squadra leggendaria come i Boston Celtics 1985-86. Chi ha impedito agli Spurs, alla miglior stagione della franchigia (e settima di sempre) con 67-15, di centrare un clamoroso 41-0? Ovviamente i Golden State Warriors.
Ad ovest tutto deciso, quindi? Parrebbe di sì, perché la distanza tra Warriors e Spurs e le altre sembra siderale: solo la stagione record degli Warriors ha infatti oscurato, parzialmente, quello che a duemila miglia di distanza ha fatto la squadra di Gregg Popovich, tra l’altro gestendo oculatamente le forze di qualcuno dei sui anziani leader e fregandosene bellamente del record. In altre parole, è probabile che spremendo un po’ di più i Duncan, i Parker e i Ginobili il 72-10 dei Bulls potesse tranquillamente essere anche alla portata dei texani. Ma la filosofia della franchigia prevede di concentrarsi sull’obiettivo principale, i playoff, e non certo sui traguardi intermedi.
Curiosamente, pur mescolando un po’ le posizioni, sette delle otto qualificate della Western Conference sono le stesse di un anno fa. Solo gli Oklahoma City Thunder, una volta recuperato Kevin Durant, sono tornati al posto che loro compete a scapito dei deludenti New Orleans Pelicans di un deludentissimo Anthony Davis. L’impressione comunque è che né OKC, né gli eterni incompiuti Los Angeles Clippers siano in grado di fermare i treni guidati da Steve Kerr e Gregg Popovich: difficilmente Chris Paul e soci sgambetteranno di nuovo i campioni in carica (l’anno scorso eliminarono gli Spurs al primo turno), in una a questo punto probabile semifinale di Conference. D’altra parte, il fattore campo per due squadre che in casa hanno perso complessivamente 3 partite su 82 è qualcosa di più di un piccolo vantaggio.
Altrettanto netto è il divario che separa le prime quattro dalle altre qualificate, tutte in involuzione rispetto alla scorsa annata. Gli Houston Rockets hanno acciuffato l’ottavo posto all’ultimo tuffo ai danni degli Utah Jazz, ma non sembrano più avere la qualità che un anno fa permise loro di arrivare in finale di Conference: la discontinuità di James Harden e l’irrisolto enigma Dwight Howard pesano irrimediabilmente su una squadra che disponi di pochi altri talenti e che rischia di schiantarsi contro la corazzata della baia al primo turno. I Memphis Grizzlies decimati dagli infortuni (Marc Gasol su tutti) e ormai in caduta libera, i declinanti Dallas Mavericks nonostante i miracoli dell’intramontabile Dirk Nowitzki e gli anonimi Portland Trail Blazers di un ottimo Damian Lillard paiono destinati ad essere le vittime sacrificali delle altre serie di primo turno, che a rigor di logica, dovrebbero scorrere via lisce per le prime quattro della regular season. A quel punto le semifinali Warriors – Clippers e Spurs – Thunder saranno sicuramente da vedere, ma entrambe con una favorita ben definita.
Per una volta sembra invece tutto molto più interessante ad est, non tanto perché sia migliorata particolarmente la qualità delle squadre della Eastern Conference, quanto perché dietro le big four è scemata in modo preoccupante quella delle squadre occidentali. Prova ne sia che con l’ultimo record utile per i playoff (41-41), Houston sarebbe arrivata solo decima ad est, dove resta fuori Chicago con un record positivo (42-40). Proprio l’esclusione dei Bulls è la sorpresa più grande della regular season orientale, dove invece c’è stato un grande ricambio di squadre qualificate. Oltre alla squadra di Butler, Rose e Pau Gasol, restano fuori infatti anche gli Washington Wizards (semifinalisti di Conference nel 2015), i Milwaukee Bucks (deludenti nonostante le imprese di The Greek Freak Giannis Antetokounmpo) e i Brooklyn Nets, subito fuori da qualsiasi discorso playoff e arrivati al traguardo con un pessimo 21-61, meglio solo dei derelitti Philadelphia 76ers.
Entrano invece forze nuove come gli interessanti Charlotte Hornets di Michael Jordan (dietro la scrivania) e di Kemba Walker e il sempre più convincente Nicolas Batum (in campo) e i Detroit Pistons di Reggie Jackson e del centro old style Andre Drummomd. Tornano gli Indiana Pacers di Paul George (protagonista di un avvio di stagione sensazionale) e i Miami Heat, che non saranno più quelli degli anelli, ma che grazie ai sempreverdi Dwyane Wade e Chris Bosh (ora infortunato) e a un altro centro dominante come Hassan Whiteside tornano al ruolo che loro compete in post-season, dopo un appassionante arrivo in volata che li ha visti strappare il titolo della Southeast Division e il terzo posto nel seeding ad Atlanta Hawks, Boston Celtics e Charlotte Hornets, arrivati tutti alla pari (48-34).
Proprio l’incrocio tra queste quattro squadre, che essendosi classificate dal terzo al sesto posto si sfideranno nel primo turno, è uno degli aspetti più interessanti dell’inizio dei playoff, con Miami leggermente favorita su Charlotte e Atlanta su Boston proprio per il fattore campo, ma si tratta di serie che si prestano a tutti i risultati, vista l’imprevedibilità dei Celtics, che possono vincere e perdere con tutti (come hanno dimostrato in casa Warriors), e la tenuta casalinga degli Hornets (30-11 in regular season) che difficilmente si faranno sorprendere alla Time Warner Cable Arena.
Per quanto riguarda i primo posti, anche quest’anno LeBron James e i suoi Cleveland Cavaliers hanno vinto la Conference in ciabatte, nonostante la miglior stagione di sempre (56-26) dei Toronto Raptors, trascinati dai mini-splash brothers Kyle Lowry e DeMar DeRozan, e solidissimi nel granitico Jonas Valanciunas e nell’esperienza di Luis Scola. I Cavs sono stati invece enigmatici come non mai, mostrando pochi progressi nel gioco nonostante i rientri di Kevin Love e Kyrie Irving e qualche balbettio di troppo nei confronti con le grandi dell’ovest; e arrivando ben presto allo psicodramma della cacciata di David Blatt, notoriamente poco gradito a The King. Si sa che nei playoff Cleveland, e soprattutto LeBron, cambieranno marcia e che non dovrebbe avere problemi a sbarazzarsi dei Pistons al primo turno e di chi arriverà tra Atlanta e Boston in semifinale, ma la finale di Conference si preannuncia più aperta e interessante dell’anno scorso, con Toronto in crescita (se supererà l’ostacolo Pacers) e mine vaganti come Charlotte e Miami pronte a rovinare la festa. E se fossero proprio gli amici Wade e Bosh a togliere le Finals a Sua maestà?
Capitolo italiani: stagione purtroppo deludente e in parte preoccupante anche in vista del preolimpico di Torino. Andrea Bargnani dopo rare apparizioni con pochi minuti e ancora meno punti ha risolto il contratto con Brooklyn; Marco Belinelli non ha trovato né i minuti né i Sacramento Kings che sperava, in una squadra che, visto il peggioramento del livello della Western Conference, poteva tranquillamente ambire ai playoff con gente come Rajon Rondo e DeMarcus Cousins. Il migliore di tutti è stato, come al solito, Danilo Gallinari, ormai sempre più uomo-franchigia dei Denver Nuggets, una squadra però al momento priva di ambizioni. Il Gallo ci ha regalato un paio di mesi da all-star tra gennaio e febbraio prima di incorrere nell’ennesimo infortunio: meglio incrociare le dita da qua a luglio.