Esattamente tre anni fa, recensendo il meraviglioso concerto di Cesare Cremonini nella “sua” Unipol Arena di Casalecchio nella tappa forse più emozionante del Logico Tour, mi ero focalizzato su due aspetti principali relativi all’artista bolognese. Il primo: con Logico era finalmente diventato quello che voleva essere e da quell’album in poi ci sarebbe stato certamente di che divertirsi perché, per sua stessa ammissione, quel lavoro era un punto di partenza più che un punto di arrivo; il secondo: Cesare in quel momento era diventato la più grande (o più probabilmente l’unica) pop star italiana e avrebbe meritato un tour negli stadi come già allora accadeva per artisti dal valore largamente inferiore (senza nulla togliere a nessuno). A distanza di tre anni, arriva finalmente la notizia del suo primo tour negli stadi, previsto per la prossima estate, in contemporanea con l’uscita di un nuovo capolavoro come Possibili scenari, un album destinato a riscrivere il significato della parola pop, in Italia e non solo.
Possibili scenari è infatti un disco che sublima le due caratteristiche principali di Cesare: da una parte l’attitudine cantautorale che da sempre lo contraddistingue e che ne fa probabilmente l’unico erede della scuola che parte da Fossati, Tenco, De André a Genova, passa per la Roma di De Gregori e Venditti e arriva inevitabilmente alla Bologna di Dalla. Dall’altra una maniacale ricerca sonora, come sempre con il solito decisivo contributo del fido Alessandro Magnanini, che modernizza l’approccio classico del cantautore voce e chitarra e gli regala un sound pieno, attuale e internazionale, che certamente vede il pianoforte di Cremonini in primo piano nei brani più intimi, ma anche un’esplosione di strumenti, anche inusuali, a dare anime diverse a pezzi diversi, basti pensare al theremin di Vincenzo Vasi che chiude in modo stupefacente quella clamorosa suite pop-rock che è il primo singolo Poetica.
Un album che poggia su quattro pilastri ben definiti, ben distribuiti nel corso dell’album e che spiccano tra gli altri brani per originalità, profondità dei testi, suoni, arrangiamento, produzione. Testi profondi (che vedono la collaborazione dell’ottimo Davide Petrella), capaci di tracciare ritratti, talvolta spietati, delle nostre vite, della nostra ormai acclamata incapacità di saper vivere il presente e intessere rapporti personali; temi che, nonostante la profondità, Cesare tratta con la leggerezza e l’ironia che lo contraddistinguono, senza mai indulgere a sentimentalismo e retorica. Strutture che stravolgono la forma canzone, in cui la sequenza strofa-bridge-chorus viene archiviata nel cassetto più in basso, in cui i ritornelli, questi inevitabili impostori del pop, sono minimizzati, in alcuni casi proprio eliminati, o lasciati alla libera interpretazione di chi cerca autonomamente la traccia melodica.
La title track Possibili scenari, tanto per cominciare, è una vera dichiarazione di intenti posta ad inizio lavoro, come spesso accade negli album di Cremonini; in questo caso c’è meno spazio per le consuete intro, ma si entra subito in medias res con un giro di piano memorabile su cui si innesta prima una rara cassa in quarti e poi una chitarra sotterranea a profumare di rock un pezzo che brilla per la bellezza del testo, e che sembra un lungo viaggio attraverso la storia della Terra sospeso tra passato e futuro, come il monolito di 2001: Odissea nello spazio, ma che poi si arrende ai piccoli fugaci attimi del presente (“E poi succede che ci sentiamo bene senza nessun perché”). Qui la melodia è immediata e orecchiabile, senza peraltro essere banale, come sempre, e ricama uno dei momenti migliori dell’album che sembra tracciare un ideale filo conduttore con Logico; possibile singolo e candidata numero uno all’apertura della scaletta nel prossimo tour.
Il secondo pilastro è il già citato Poetica: brano dalla struttura spiazzante, ancora più spiazzante di quanto fu Logico quando il singolo uscì sulle radio nel 2014, con un ritornello che non è un ritornello, con una ritmica tutta da interpretare, con una metrica fuori dagli schemi consueti, e con un occhio strizzato a quello che avrebbero fatto i Queen se avessero dovuto scrivere una ballata in italiano. Pieno di hook disseminati apparentemente a caso lungo tutta la traccia, fin dal coro con orchestra dell’intro, e poi dal reiterato “Anche quando poi saremo stanchi, troveremo il modo”, fino all’improvviso e travolgente assolo di chitarra poco prima del minuto due; e ancora all’atmosfera ovattata delle parti d’orchestra a quella del theremin, fino all’incredibile crescendo finale. Testo che si riassume benissimo nel titolo: pura poesia, un Brunello d’annata da sorseggiare con calma secondo dopo secondo, gustandone ogni momento; uno dei brani meno radiofonici di Cesare che però sta dominando in radio, forse proprio per questo motivo. Capolavoro.
Proseguendo il viaggio attraverso i capisaldi di Possibili scenari troviamo Nessun vuole essere Robin, forse addirittura il pezzo più bello, intenso e maturo dell’intera carriera dell’artista bolognese, tant’è che si tratta del brano più condiviso e citato sui social network pur non essendo ancora uscito come singolo o passato da alcuna radio. La canzone è una sensazione che nasce sotto pelle e si fa largo piano piano: al primo ascolto presti attenzione solo alle parole, a questa straordinaria opera letteraria che è il testo di questo brano che scruta senza pietà dentro l’abisso di noi stessi e ci mette a nudo, tutti quanti, davanti al senso della vita, alla criticità dei rapporti umani e sentimentali al giorno d’oggi. Poi, al secondo ascolto, si fa largo la melodia che sembrava non esserci e invece è lì in tutta la sua scintillante nitidezza e ti ritrovi a canticchiare il ritornello annuendo con la testa e ricacciando in gola le lacrime. E ancora ti rendi conto di quanto cavolo canta bene Cremonini in questo pezzo (e in generale in tutto l’album: le parti vocali di Un uomo nuovo e Silent Hill sono impressionanti) e degli incredibili progressi che ha fatto come cantante. Infine tiri una riga che parte da Fare e disfare, tratta sempre dall’album precedente, e che arriva fino a Nessuno vuole essere Robin e di colpo capisci tutto, e ci trovi dentro Bologna e Lucio Dalla, e l’amore e la morte, e l’amicizia e il vino, e la musica e la vita. Tutto.
A chiudere il cerchio non poteva che essere l’ultimo brano: La macchina del tempo. Pezzo che subito è spiazzante con l’intro di orchestra che fa pensare a una cosa e poi il loop di batteria elettronica che fa pensare a tutt’altro. Poi arriva la voce calda e tranquilla di Cesare che comincia a narrare come un consumato cantastorie e di colpo tutto è a fuoco, con un testo denso di dolcezza e rimpianto e un’incredibile, grandiosa, interminabile coda di archi che sembra provenire direttamente da un’opera classica mentre la voce si fa disperata nel tormentato finale. Una conclusione struggente per un album che rasenta la perfezione.
Detto dei quattro pilastri dell’album, va aggiunto che le altre sei tracce non sono certo dei riempitivi, anzi. Sono semplicemente pezzi dalla struttura più ordinaria, e che restano giusto un mezzo gradino più in basso rispetto alle quattro perle. Tra i più riusciti sicuramente i due brani più divertenti dell’album: la funky-disco anni ’70 di Kashmir-Kashmir e il pop-rock di matrice anglosassone di Al tuo matrimonio.
In Kashmir-Kashmir si tratta il tema dell’immigrazione che di questi tempi è quasi ineludibile, tema che nella maggior parte dei casi è però intriso di politica e di retorica (penso a L’uomo nero di Brunori, giusto per restare al 2017). Cesare lo tratta invece con ironia e leggerezza, guardandolo dal punto di vista di un pakistano che si è perfettamente ambientato nella società occidentale, fino al punto di celebrare il venerdì sera come momento fondamentale della settimana, e soprattutto ironizzando sull’ingiustificata paura che i lineamenti mediorientali ormai generano nelle persone. Il tutto su un trascinate tappeto di funky-disco, giocato su un piano alla Ray Charles e sul basso saltellante di Ballo.
L’idea alla base di Al tuo matrimonio non è nuovissima (mi viene in mente Kiss The Bride di Elton John), ma pochi hanno saputo svilupparla con tanta ironia e genio musicale. La storia di un uomo che si presenta alla cerimonia di nozze della ex e comincia a fare il matto palesemente ubriaco: quanti uomini traditi o semplicemente lasciati non hanno mai sognato di farlo? Qui la parte musicale è di chiara ispirazione brit-pop (non ho potuto fare a meno di immaginarla interpretata da Liam Gallagher), retta da arpeggi di chitarra elettrica potenti e pieni e da una vigorosa sezione ritmica, senza farsi mancare una generosa spolverata di synth. Brano tanto divertente quanto trascinante: negli stadi sarà una bomba.
Ne Il cielo era sereno Cesare rientra nella sua comfort-zone (ammesso che ne esista una), nel senso che torna sulle tracce di una forma-canzone standard basata su un normalissimo giro di chitarra acustica (e in un certo senso questa è una notizia) e di pianoforte solo inzuppato in un bicchierino di nostalgia. Un pezzo piacevolissimo nella sua semplicità, che in qualche modo si innesta nel filone leggero della discografia di Cremonini sulla scia di un pezzo come I Love You. Molto più sorprendente La isla che cede addirittura a suggestioni caraibiche e che se a un primo ascolto può risultare banale, ha invece una profondità sia musicale sia lirica che va scoperta volta dopo volta e che ha il suo apice nel bellissimo impasto vocale del ritornello.
Un uomo nuovo e Silent Hill sono forse le tracce più enigmatiche dell’album (anche come testi) ma anche quelle in cui Cesare dà prova di una vocalità e di un’estensione insospettabili fino a pochi anni fa, passando agilmente da note bassissime a impeccabili falsetto di varie ottave più alti. Musicalmente sono due brani estremamente complessi, entrambi ispirati ancora una volta dal brit-pop (Un uomo nuovo sembra arrivare direttamente da A Rush Of Blood To The Head dei Coldplay) con soluzioni stilistiche inusuali, dal rullante in quarti alle chitarre piene di effetti, fino ai break in stile techno.
Un album complesso, maturo, pieno di contenuti musicali e testuali, che stupisce per come diciotto anni dopo l’esordio Cesare Cremonini sia ancora in grado di migliorarsi ad ogni nuovo lavoro, in una commistione caleidoscopica (la copertina non è casuale) di generi e stili. E la cosa più sorprendente è che il tutto fila liscio senza dare mai l’impressione di salti logici tra un brano e l’altro, tra un’atmosfera e l’altra, né senza mai dare l’impressione dell’esercizio di stile fine a sé stesso. Un album che brilla come un diamante in un panorama musicale nazionale che purtroppo brilla invece per banalità e omologazione, con qualche rara e apprezzabilissima eccezione.