Una festa doveva essere e una festa è stata. Forse un giorno a Cesare Cremonini verrà voglia di prendere carta e penna (vabbè, computer e tastiera…) e di provare a descrivere a freddo quello che ha significato per lui il concerto dello scorso 26 giugno al Dall’Ara, andando oltre a quanto già scritto a caldo, con l’adrenalina ancora in circolo, sui vari social network. D’altra parte Cesare non è solo cantante, musicista, autore, arrangiatore e performer ma è anche uno scrittore sopraffino e sono certo che di cose da dire, aneddoti, sensazioni, emozioni, palpitazioni ce ne sarebbero tante.
Immaginate un ragazzo che a solo 19 anni ha già il mondo del pop ai suoi piedi insieme con il suo gruppo, ma cui l’etichetta di “boy band”, frettolosamente appiccicata dai soliti frettolosi giornalisti, sta stretta; e allora riparte da solo a ricostruirsi una carriera solista basata su due concetti fondamentali: qualità e credibilità. E album dopo album, capolavoro dopo capolavoro, riesce nella complicata impresa di mettere d’accordo critica e pubblico, conquistando spazi sempre più grandi, dai club ai palazzetti, fino all’ormai celebre “Dallarino” di Casalecchio di Reno di quattro anni fa che all’epoca avevo già provato a raccontare (qui il link), e poi finalmente gli stadi, i megaconcerti a cui tutti i grandi artisti più o meno segretamente ambiscono. E in quanto artista straordinario, Cesare Cremonini non ha mai fatto mistero di pensare che la sua musica fosse perfetta per essere suonata negli stadi. In particolare nel suo stadio.
Già, perché rispetto alle altre date di questo primo (e certamente non ultimo) tour negli stadi, quella del Dall’Ara era carica di significati e suggestioni ulteriori e noi possiamo solo provare a immaginare cosa sia passato nella testa di Cesare in quei momenti carichi di tensione prima di salire sul palco, e poi per tutte le due ore e mezza del concerto. La curva Andrea Costa davanti a sé, frequentata ogni domenica in gioventù molto prima che fosse intitolata a Giacomo Bulgarelli, quando anche Cesare indossava “la maglia del Bologna sette giorni su sette” come insegna il suo concittadino Luca Carboni, e non solo per cantare Marmellata #25, come da tradizione. Le migliaia di bolognesi, disseminati nel pit, sul prato, in tribuna, incrociati mille volte sotto i portici o nei locali davanti a un piatto di tortellini e una bottiglia di rosso buono. E poi lo sguardo bonario di Lucio Dalla, nascosto dietro alla luna quasi piena, l’ultimo bolognese a calcare il palco del Dall’Ara quasi quarant’anni fa, insieme col romano Francesco De Gregori ai tempi di Banana Republic. Con tutto l’orgoglio ma anche il carico di responsabilità che una simile eredità comporta.
E con la sincerità e l’onestà intellettuale che lo contraddistinguono, non si può non credergli quando Cesare spiega che il suo posto dovrebbe essere nel prato in mezzo agli amici piuttosto che sul palco (“Che cosa devo conquistare se mi sento a casa? Io dovrei venire lì in mezzo. Vengo lì in mezzo!”): non è la classica posa da rockstar che finge di dare importanza al proprio pubblico, le sue parole sono sentite e sincere come lo sono tutti i suoi testi.
Lo spettacolo, poi. Uno show di una bellezza entusiasmante, una produzione come se ne vedono poche nel contesto musicale nazionale: effetti speciali, laser, fuochi d’artificio, stelle filanti, nulla però fine a sé stesso ma tutto funzionale a quello che deve per forza essere il fulcro dello spettacolo, la musica, le canzoni. A cominciare dalle barre caleidoscopiche, simbolo dell’album Possibili scenari, che si spostano e si posizionano, coprendo e scoprendo la band, creando suggestivi giochi di luce e dando un “vestito” diverso ad ogni brano. La scaletta, infine, concedendo spazio un po’ a sorpresa a soli cinque pezzi (su dieci) dell’ultimo album, diventa un lungo excursus tra le canzoni più belle di tutta la discografia di Cesare, tralasciando solo pochi dei suoi più grandi successi, e alternando potentissime parti con la band a suggestivi momenti intimi per voce e pianoforte.
L’inizio dello show è tanto originale quanto riuscito: gli schermi inquadrano le scarpe di Cesare che, in diretta, camminano lungo le viscere del sottopalco, fino a salire le scalette che lo regalano, finalmente presente in carne e ossa, all’urlo della folla, a cielo ancora chiaro. Da solo, dopo aver raccolto e ricambiato l’abbraccio della sua Bologna, attacca al piano l’intro di Possibili scenari, title track e primo brano del nuovo album. Potrebbe anche non cantare, tanto il pubblico canta più forte di lui e poi, giunti al ritornello e alla prima esplosione progressive rock del pezzo, ecco rivelarsi la band, ecco il primo effetto speciale, ecco il primo lungo brivido lungo la schiena. Kashmir Kashmir è il nuovo singolo, estivo nella forma ma impegnato nei contenuti, che fa ballare tutto lo stadio sul basso funky e saltellante di Ballo, poi parte una prima sequenza di superhit che quasi tramortisce: prima il tiratissimo rock di Padre/Madre, e a Bologna non si può non pensare agli orgogliosissimi signori Cremonini, poi Il comico con l’ormai consueta splendida e interminabile intro che crea un’atmosfera incantata di attesa fino a quel verso che abbiamo scritto in migliaia da qualche parte nelle nostre bio: “Sono stato anche normale in una vita precedente”. E infine a cielo finalmente buio sono le mille luci degli smartphone (che ormai hanno sostituito gli obsoleti accendini) a illuminare La nuova stella di Broadway con il coro “New York New York” che non manca mai di far venire due dita di pelle d’oca.
La setlist prende un po’ di respiro, anche per salvaguardare le coronarie degli spettatori più attempati come me, passando attraverso Latin lover e il momento più elettronico della serata con Lost in the weekend col suo tiro dichiaratamente anni ottanta e l’invece moderna e recente Un uomo nuovo. Una splendida versione di Buon viaggio per chitarre e banjo, con finale a sorpresa di tromba, fa da viatico al lungo momento acustico che vede Cesare senza band al pianoforte su un palco laterale, con il solo contrappunto proprio della tromba di Andrea Giuffredi, ottimo trombettista parmigiano. Questa parte di spettacolo ricalca in massima parte il set già sperimentato nel precedente Logico Tour con una versione stripped-down di Figlio di un re e la solita divertentissima Una come te con il consueto gioco tra il pubblico e Cremonini, che a fine ritornello finge di stupirsi per il coro “Ohoh ohoh ohohohoh” che la folla gli regala, fino ad abbandonarsi ad un bolognesissimo “Soccia!”.
Un coro che sembra raddoppiare per il ritornello della struggente e sentitissima Vieni a vedere perché, uno dei manifesti sull’amore più centrati e veri della musica italiana. Poi, all’improvviso, la magia: dopo aver confuso le acque con qualche sapiente arpeggio al pianoforte, Cesare attacca l’inconfondibile giro de L’anno che verrà accolto dal boato del Dall’Ara, che se la canta tutta dall’inizio alla fine, nel momento più toccante ed emozionante della serata; la dedica, immancabile ed esplicita, a Lucio lassù dà il via a una strameritatissima standing ovation. Brividi.
Le sei e ventisei, come già accadeva nello scorso tour, col suo finale potente che coinvolge tutta la band, getta un ponte ideale tra la fine del momento acustico e il ritorno al suono rock del set successivo, che si apre con una versione coinvolgente di Mondo, con tanto di duetto virtuale con Jovanotti via maxischermo e poi con la travolgente e carichissima Logico #1, con un’altra scoppiettante sequenza di effetti speciali a sottolinearne la ritmica sincopata. Con lo stadio già in piena fibrillazione, la scarica danzereccia e ironica di Grey Goose fa ballare tutte le tribune, oltre alla folla sul prato. C’è poi lo spazio per una versione inedita per voce e chitarra di Dev’essere così e per una psichedelica e spiazzante Il pagliaccio, ma è già ora di prepararsi per il gran finale.
Dopo un siparietto con il fido Ballo, invitato a sua volta a godersi l’abbraccio della sua gente da buon bolognese di Porta Saragozza, Cesare prima scende tra la folla del pit a sottolineare di essere parte di quella gente, poi da attore consumato crea suspense annunciando al pubblico una notizia da comunicare: “Ho aspettato Bologna per dirlo – dice serio – dopo vent’anni… ventuno… noi siamo ancora bellissimi!” E così parte l’inconfondibile giro di 50 Special e non c’è uno solo degli ottantamila piedi del Dall’Ara che stia fermo. Energia, divertimento, gioia, felicità. Una scossa di adrenalina difficile da descrivere.
Dai colli bolognesi alla maglia del Bologna e ai tempi di Baggio, di quanto segnava gol a raffica esattamente lì dove Cesare si trova in questo momento, il passo è breve. Marmellata #25 è in qualche modo l’ideale continuazione di 50 Special, è la naturale evoluzione di un ragazzo che diventa uomo, che dopo le gite spensierate in Vespa inizia a sperimentare le prime delusioni, sportive, ma soprattutto sentimentali. È il percorso di crescita di un artista il cui talento è sempre stato cristallino ed evidente ma che sia affina anno dopo anno.
Non a caso la chiusura del set è affidata a due pezzi nuovi, originali, spiazzanti e meravigliosi, che sintetizzano meglio di qualsiasi parola lo stato di grazia personale e artistico raggiunto da Cesare Cremonini alla fine di questo percorso durato quasi vent’anni. Il primo singolo dell’ultimo album, Poetica, dal vivo assume un incanto ancora superiore alla versione da studio, con una scenografia di grande suggestione composta da decine di lampadine che prima si accendono e poi scoppiano mentre la folla ripete come un mantra liberatorio “Anche quando poi saremo stanchi troveremo il modo” e il commovente “Bologna, abbracciami!” finale; e poi la magia assoluta di Nessuno vuole essere Robin cui viene giustamente riservato il posto d’onore in chiusura di scaletta.
Difficile riuscire a descrivere le sensazioni nell’ascoltare dal vivo questa canzone che mi ha accompagnato negli ultimi sette mesi e che di certo mi accompagnerà per tutta la vita. Mi si è appiccicata addosso il giorno stesso dell’uscita dell’album lo scorso 24 novembre, molto tempo prima che diventasse un singolo radiofonico ad altissima rotazione che ha poi raggiunto milioni di persone; mi è entrata sotto pelle dopo pochi ascolti e una volta scoccata la scintilla, dopo essere entrato nelle pieghe di uno testi più belli e veri della storia della musica italiana e tra le curve di una melodia nascosta, di quelle che una volta colte non ti lasciano più, non è passato giorno senza che l’ascoltassi, o che la ripassassi mentalmente, o che la cantassi a squarciagola in macchina o sottovoce sul mio divano. E la cosa più straordinaria di questo pezzo è che tanti, tantissimi, nell’istante stesso in cui annuivamo commossi alle parole di Cesare che, con la semplicità fiabesca e innocente del bambino di Andersen che annuncia che il re è nudo, ci faceva notare come fossimo tutti più soli, ci siamo riconosciuti in quelle parole e ci siamo riconosciuti tra di noi, diventando per un paradossale contrappasso molto meno soli di prima. Così sette mesi dopo, ci siamo ritrovati tutti al Dall’Ara, abbiamo messo gli smartphone nello zainetto e ci siamo stretti in un grande abbraccio. Con Cesare al centro.
Quindi davvero, non so spiegare cosa vuol dire Nessuno vuole essere Robin dal vivo, se non che è la conclusione perfetta di una serata perfetta: non si possono descrivere le emozioni, i brividi, le cose che ti passano per la testa, la somma di sensazioni che si accumulano una sull’altra fino a che il cuore ti sembra scoppiare di vita. La musica, la voce, i colori, i suoni, la folla, i laser, le stelle filanti, i fuochi d’artificio, le persone speciali che hai accanto. È la sintesi di una giornata bellissima, perfetta, iniziata prestissimo per godersela goccia a goccia, minuto dopo minuto, con i suoi sapori, i suoi panorami, i suoi profumi. È una mano amica che vede la tua commozione e ti accarezza un braccio, partecipe e commossa a sua volta. E per cinque minuti e quarantacinque secondi, semplicemente, sei su un altro pianeta.
Finisce così, già più di due ore sono volate via, e resta solo il tempo per presentare tutti gli elementi dell’ottima band che lo ha accompagnato in questa serata magica e poi Cesare saluta, come da tradizione, con Un giorno migliore. E se lui ci sarà, e se ci saremo anche noi, lo sarà senz’altro. E allora sì, che sia in un palazzetto o allo stadio, non ci sarà nessun dubbio: Cremonini a Bologna, l’è tót un etar quel!