Dopo tre concerti in meno di quattro anni, culminati con l’apoteosi dello stadio Dall’Ara dello scorso giugno (qui la recensione) pensavo ormai, non dico di essermi assuefatto alla cesarite, ma per lo meno di essere arrivato al punto in cui alla prossima data di Cesare Cremonini mi sarei certamente emozionato e divertito come sempre, ma non ci sarebbe più stato modo di stupirmi. Mi sbagliavo. E di grosso.
La prima sorpresa è che, pur riducendo le dimensioni della venue, lo spettacolo viene riproposto tale e quale senza perdere nulla in scenografie ed effetti speciali: intatti i monoliti caleidoscopici, presenti e abbondanti le stelle filanti, i coriandoli e i fuochi d’artificio, semplicemente ridimensionato il palco sul quale Cesare comunque scorrazza felice, regalandosi all’abbraccio della sua gente, che gremisce il Forum “in ogni ordine di posto”, direbbero quelli bravi.
Già, perché la seconda sorpresa, questa sì indipendente dagli immani sforzi della produzione, è trovarselo lì a un paio di metri, grazie a due biglietti di parterre e a un sapiente slalom tra gli accampamenti di zainetti, panini e smartphone, che ci porta a due bracciate dal palco “secondario”, dove in realtà Cesare passa la maggior parte del tempo. Possiamo scrutarne gli sguardi e le espressioni, coglierne la gioia e le emozioni, indovinarne la piacevole fatica sotto la camicia intrisa di sudore, e a volte sembra che si rivolga davvero a noi, guardandoci direttamente negli occhi. Ed è qui, nell’essere in una dimensione intima e confidenziale ma contemporaneamente parte di una folla partecipe e urlante che si compie la magia della terza sorpresa: la forza d’urto di un megashow e insieme la fortuna di avere il tuo artista preferito a due passi, come in un piccolo club di provincia.
Che poi in un palasport o in un club la musica trovi la sua massima forma di esecuzione e fruizione non è un segreto. Se le emozioni che regala uno stadio sono inimitabili grazie alla moltitudine di gente, alla passione che batte il tempo all’unisono, alla potenza dei cori che sono definiti “da stadio” appunto per un motivo, la qualità del suono che regala un luogo chiuso è impareggiabile. E qui corre l’obbligo di citare la straordinaria band che accompagna Cesare (di cui talvolta distrattamente e colpevolmente ci si dimentica, troppo assorbiti da quello straordinario performer che domina il palco), che suona alla grande generi e stili diversi con una precisione e una pulizia rare. Mentre il performer di cui sopra, pur essendo alla seconda data consecutiva, canta come un padreterno, senza soffrire minimamente i due concerti ravvicinati e dando l’ennesima prova di una vocalità calda, precisa e matura; ma questa da tempo non è più una sorpresa.
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Droni alla conquista di Milano: Muse live
È ormai chiaro da diverso tempo come la nuova frontiera del music business sia diventata la produzione e la realizzazione di spettacoli dal vivo, molto più redditizi rispetto alla vendita di copie fisiche di CD che ormai hanno un costo non più competitivo all’interno di un’offerta virtuale illimitata: troppo facile oggi l’accesso a contenuti multimediali tramite piattaforme on-line, quando lo stesso streaming è ormai legalizzato e regolamentato, senza nemmeno quel minimo di rimorso di coscienza di anni fa nel trovarsi a piratare musica (o film) illegalmente. L’unico modo per mantenere alta l’attenzione verso un prodotto che fatalmente internet ha banalizzato, rendendolo disponibile anche a un utente bassamente coinvolto e interessato, è allora quello di vendere un prodotto unico e irripetibile come un live show: perché se è vero che nel giro di pochi giorni si possono trovare ovunque i video dello spettacolo registrati con i telefonini, è altrettanto vero che le emozioni del momento dell’evento, del qui ed ora, difficilmente sono registrabili attraverso uno smartphone. E a quanto pare la gente, che riesce a risparmiare sull’acquisto di musica preferendo il download legale (almeno speriamo) all’acquisto di CD, quando non si accontenta dello streaming su Spotify o addirittura dell’infima qualità audio dei video su YouTube, è disposta a sborsare cifre importanti per ascoltare i concerti dei propri artisti, spettacoli che in certi casi definire solo concerti è francamente riduttivo. A patto, però, che lo show offerto sia davvero sensazionale, unico, irripetibile.
In questo campo, è evidente, i Muse hanno ormai fatto scuola: da sempre abituati a stupire il pubblico con spettacoli pirotecnici, palle di fuoco, utilizzo sapiente dei video e dei megaschermi, invenzioni scenografiche mai banali, sono da tempo la rock band da stadio per eccellenza, dimensione in cui si trovano perfettamente a proprio agio. Ed anche il nuovo Drones Tour, concepito invece per palasport e arene, non tradisce le attese: ancora una volta la band di Teignmouth si dimostra all’avanguardia non solo per le scelte musicali ma anche per l’originalità della proposta scenica e teatrale. Ed è così che i tanto attesi droni lo scorso 14 maggio sono atterrati ad Assago, in un Forum gremito che come sempre ha regalato un colpo d’occhio notevole, nonostante i larghi spazi vuoti nel parterre, non è chiaro se dovuti a motivi di sicurezza o a una sovrastima delle dimensioni del palco, e nonostante si trattasse della prima di ben sei date sold-out che hanno spinto il promoter italiano a lanciare l’hashtag #MuseWeek.
Con questo show, Matt Bellamy e compagni spostano di un’altra tacca verso l’alto l’asticella del concetto “la musica al centro” che era stato ideato dagli U2 nel 360° Tour tra il 2009 e il 2011. In questo caso non solo il palco è aperto e sistemato al centro del parterre, permettendo così una visione a tutto tondo da ogni settore dell’impianto, ma è anche rotante in modo che tutto il pubblico, a turno, possa incrociare lo sguardo dei propri beniamini. Allora Dominic Howard ha la sua batteria posizionata ovviamente al centro del palco rotante; alle sue spalle, in realtà un po’ sacrificato in una buca, il “membro non ufficiale” Morgan Nicholls, preziosissimo polistrumentista che affianca i tre Muse alternandosi tra tastiere, sequenze e chitarre. Ai quattro punti cardinali del palco ci sono altrettante postazioni microfoniche su cui si alternano Chris Wolstenholme con i suoi bassi distorti e immaginifici (vedi lo strano strumento che utilizza in Madness, che combina il basso synth Misa Kitara e il suo classico Status Graphite S2) e Matt che, novità assoluta, in più di un’occasione (Starlight ed Uprising per esempio) abbandona l’amata chitarra lasciando il compito dell’accompagnamento ritmico a Morgan per poter scorrazzare liberamente avanti e indietro sul palco, dedicandosi caso mai solo agli assolo. La parte video dello spettacolo viene proiettata su un display ugualmente tondo che troneggia sopra il palco e su impalpabili teli retrattili che scendono a comando dal soffitto; una produzione di altissimo livello, di elevatissimo valore tecnologico e curata nei minimi dettagli, che giustifica senza ombre di dubbio il prezzo di biglietti non certo economici.
Se non c’è pioggia, non c’è arcobaleno. Il live di Paolo Nutini.
“Se non c’è pioggia, non c’è arcobaleno”. Lo ripete come un mantra nel suo italiano stentato Martin Finnigan, il cantante di The Rainband, che evidentemente sente di aver qualcosa da farsi perdonare, arrivando da Manchester (non esattamente la terra del sole) con un nome così, proprio nella giornata in cui il Lambro e il Seveso mettono in ginocchio per l’ennesima volta Milano e la sua rete metropolitana con forti disagi anche per il pubblico diretto al Forum. La sua band è comunque interessante, suona un buon indie-rock con non poche influenze brit-pop (d’altra parte a Manchester il nome Gallagher significa ancora qualcosa) e commuove Assago quando suona Rise Again, il brano dedicato a Marco Simoncelli, alla cui fondazione furono destinati tutti i proventi del singolo due anni fa.
Ma archiviato tra gli applausi l’opening act, tocca ovviamente a Paolo portare l’arcobaleno sui volti ancora fradici di pioggia dei tanti fan che hanno sfidato il maltempo per assistere alla sua unica data italiana invernale. C’è subito da dire che del ragazzino di 19 anni che nel 2006 aveva stupito il mondo con il pop d’autore del suo album d’esordio non c’è più traccia; anzi, la presa di distanza dalle atmosfere di These Streets è così marcata che le hit mondiali di quell’album non ci sono proprio: niente Rewind, niente New Shoes (relegata in una minicitazione sul finale di una rivisitatissima Jenny Don’t Be Hasty), non c’è la stessa These Streets, mentre Last Request è il cadeau di commiato con cui Nutini, solo voce e chitarra, si congeda dal pubblico del Forum regalandogli questa perla acustica. Praticamente alla sola Alloway Grove resta pertanto il compito di tenere alta la bandiera dell’album di esordio.
Il nuovo Paolo Nutini ha un’anima blues, e soprattutto funky come emerge chiaramente già dalle prime note di Scream (Funk My Life Up), il primo estratto dall’ultimo album Caustic Love presentato anche a Sanremo lo scorso febbraio. Lo spettacolo è minimale: c’è sì il tradizionale maxischermo che di tanto in tanto trasmette immagini di supporto ai brani, ma più che altro regala panoramiche del pubblico e primi piani di Paolo a beneficio dei tanti appollaiati nella piccionaia del Forum. Ci sono giochi di luce che sembrano trasformare il palazzetto in una navicella spaziale, ma la coreografia più bella la fanno i tantissimi membri della band che si alternano sul palco, e la regia luci che trasforma di volta in volta il palco in un jazz club o in un locale vintage a seconda del momento.