Se ho cominciato fin da ragazzino a farmi una cultura musicale che andasse oltre alle sigle dei cartoni animati e ai brani di Sanremo, lo devo innanzi tutto a mio fratello, di quasi quattro anni più grande, che riempiva la nostra stanzetta con gli assolo di Mark Knopfler e le melodie al pianoforte di Elton John e Billy Joel. Ma un’altra persona che ha contribuito alla mia crescita musicale è stata sicuramente Lorenzo, mio compagno di classe al liceo scientifico che, già buon chitarrista e appassionato di anni ’70, cantautori e indie, mi fece scoprire i Guns’n Roses (che all’inizio non mi piacevano), i Led Zeppelin e i Pink Floyd (che all’inizio non mi piacevano), De Gregori e De André (che ovviamente all’inizio non mi piacevano) e soprattutto i R.E.M. (che, soprattutto loro, all’inizio non mi piacevano, ça va sans dire). Inutile dire che adesso quasi tutti gli artisti sopra citati sono compresi del novero dei miei preferiti (solo i Led Zeppelin non mi hanno coinvolto fino in fondo), soprattutto, appunto, i R.E.M.
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I droni dei Muse nel cielo di Roma
Parlare di consapevolezza, di self confidence, di maturità quando si parla di una band attiva da quasi vent’anni e ai vertici mondiali da almeno un decennio può suonare strano se non assurdo. Eppure l’impressione che si ha lasciando l’ippodromo delle Capannelle dove i Muse hanno tenuto il loro unico concerto italiano nell’ambito del festival Rock In Roma è proprio quella che siano cresciuti, cresciuti insieme con il loro pubblico. Un pubblico composto e ordinato come raramente si trova tra i fan del rock, impassibile (o quasi) nelle lunghissime ore di attesa sotto il sole cocente fino a che non è finalmente sceso sotto al palco posizionato strategicamente verso ovest, paziente nel tollerare l’ora abbondante di ritardo con cui si presenta sul palco la band di Teignmouth, generoso nell’applaudire l’ottimo opening act, i londinesi Nothing But Thieves di cui sentiremo parlare ancora.
Ma soprattutto un pubblico partecipe, rumoroso pur nella sua compostezza, che ha regalato allo show quel tocco in più di scenografia che l’allestimento basico del festival aveva tolto dal solito usuale spettacolo di luci e colori cui ci hanno abituato Matt Bellamy e compagni. La scelta di presenziare a tutti i principali festival estivi piuttosto che portare in giro il proprio tour significa essenzialmente questo: scalette più brevi e più concentrate sulla carriera invece che sull’ultimo, fortunato, album Drones; allestimenti basici e poco spazio per i voli di fantasia; la musica rimessa al centro con pochi orpelli, come ci insegna proprio la svolta back to basics dell’ultimo lavoro.