“My name is Wolf, and I solve problems” – 20 anni di Pulp Fiction

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John Travolta (Vincent Vega) e Samuel L. Jackson (Jules Winnfield) in una sequenza

“The path of the righteous man is beset on all sides by the iniquities of the selfish and the tyranny of evil men. Blessed is he who, in the name of charity and good will, shepherds the weak through the valley of darkness, for he is truly his brother’s keeper and the finder of lost children. And I will strike down upon thee with great vengeance and furious anger those who attempt to poison and destroy my brothers. And you will know my name is the Lord when I lay my vengeance upon thee.”                 (Ezekiel, 25:17)

 

Ricorre in questi giorni il ventesimo anniversario dell’uscita nelle sale di Pulp Fiction, il capolavoro di Quentin Tarantino che fece il suo esordio nei teatri americani il 14 ottobre 1994 e, pur amando visceralmente il cinema di Tarantino da Le Iene a Django Unchained, credo che le vette stilistiche raggiunte con “Pulp Fiction” siano in seguito solo state sfiorate, segnatamente in alcune sequenze di Jackie Brown e Bastardi Senza Gloria.

Ricordo di aver assistito alla proiezione in una sala di Bologna, dove allora studiavo, con un amico dell’epoca. Sapevo veramente poco della pellicola, al di là della Palma d’Oro ricevuta al Festival di Cannes ampiamente pubblicizzata sulla locandina, ma ero incuriosito sia dal cast stellare sia dalle prime voci che circolavano sul conto della pellicola. In sintesi, mi trovai di fronte ad un film innovativo (non avevo ancora visto “Le Iene”), spiazzante, divertente, fracassone, profondo, brillante. Ricordo altrettanto nitida mentente che alcune persone intorno a me si alzarono per lasciare la sala dopo circa 20 minuti (più o meno all’altezza del buco in vena di John Travolta / Vincent Vega) mentre io ero completamente rapito dalla storia. Anzi dalle storie.

Già perché uno degli elementi che maggiormente caratterizzano Pulp Fiction è appunto l’intreccio tra le quattro storie che compongo il racconto e che ruotano attorno al boss della malavita Marsellus Wallace e ai suoi scagnozzi. Storie non narrate in ordine cronologico ma montate liberamente, ottenendo così una struttura circolare e ricca di rimandi (anche grazie all’escamotage di riprendere una stessa situazione, dopo ore di proiezione, da un punto di vista differente), così che nel tempo del racconto il finale (apparente) corrisponde all’inizio (apparentante) del film, mentre nel tempo dello svolgimento effettivo dei fatti la vicenda si colloca esattamente a metà.

D’altra parte non mancano nel film (e nell’intera filmografia di Tarantino, a partire dalla casa di produzione A Band Apart), riferimenti e citazioni di Jean-Luc Godard, da cui il regista americano ha certamente imparato una delle sue lezioni più famose: alla domanda “Non siete d’accordo che un film debba avere un inizio, un centro e una fine?” Godard rispose: “Sì, ma non necessariamente in quest’ordine” e mise tutto quanto in scena ne Il Bandito Delle 11.

Ma ovviamente la bellezza del film non si esaurisce in questo espediente: c’è la brillantezza dei dialoghi tra i personaggi, definiti “iper-realistici” sia per il frequente uso di turpiloquio e slang della malavita, sia soprattutto per la capacità di Tarantino (e del co-sceneggiatore Roger Avary) di creare dialoghi in cui convivono più registri, con una naturale tendenza a mischiare soprattutto il registro alto e quello basso. Ma anche assenza di dialoghi come i silenzi carichi di tensione tra Uma Thurman / Mia Wallace e John Travolta / Vincent Vega.

C’è poi la conclamata cinefilia di Tarantino, un divoratore di pellicole dai grandi classici ai B-Movie, che dissemina di citazioni e omaggi l’intera pellicola (il già menzionato Godard, Hitchcock, Scorsese, Leone, solo per citarne alcuni, ma sarebbe impossibile elencarli tutti) e soprattutto una grandiosa regia cinematografica tout court, dalla scelta delle inquadrature, mai banali, all’utilizzo delle dissolvenze, che sembravano ormai dimenticate dalla maggior parte dei registi.

Come sempre, infine, Tarantino dedica grande cura alla scelta della colonna sonora, in particolare a quella diegetica (che cioè fa parte della messa in scena e non solo di commento) che dà ulteriore forza ad alcune sequenze già di per sé straordinarie: non solo la memorabile sequenza al Jackrabbit Slim’s in cui Uma Thurman e John Travolta ballano un irresistibile twist sulle note di You Never Can Tell per aggiudicarsi il trofeo della gara di ballo; anche quella per certi versi drammatica in cui la stessa Thurman, scatenata ed euforica per la droga e per la prospettiva della notte che l’attende,  si procura un’overdose sniffano l’eroina trovata nel soprabito di Travolta mentre lo aspetta ascoltando, cantando e ballando Girl You’ll Be A Woman Soon mentre è il suo cavaliere è in bagno intento a risolvere i suoi conflitti morali interiori.

In questi vent’anni penso di avere rivisto Pulp Fiction una trentina di volte, di cui dieci in lingua originale, cercando di trovare sempre nuovi angoli, nuovi riferimenti, nuovi punti di vista e livelli di lettura. Cosa che puntualmente accade ad ogni visione, ed ogni volta mi trovo a riflettere sulla magia del cinema che riesce a farci amare personaggi del tutto negativi, grazie alla posizione della macchina da presa, allo sguardo benevolo del regista o a dialoghi brillanti. Perché in un mondo dove una macchina rigata con una chiave è cosa ben più grave di una pallottola in faccia tutto è possibile, in quel mondo dove lo sguardo disincantato e ironico dell’understatement fa digerire con una risata ettolitri di sangue.