Lei è bella, è elegante, ha classe; lei ha portato un tocco di stile newyorkese nelle campagne del Missouri; lei è incinta, almeno così sostiene la sua migliore amica o quella che si spaccia come tale. Lei è sparita. Lui ha dovuto abbandonare New York per stare accanto alla madre malata, ma ha perso il lavoro e ora gestisce un bar con la sorella gemella Margo (Carrie Coon); e i rapporti tra gemelli, si sa, sono spesso morbosi, insinua la “gente”; lui non sembra sconvolto dalla scomparsa di sua moglie; lui sorride alle conferenze stampa, lui si fa i selfie con graziose sconosciute; lui, scopriamo presto, ha un’amante giovane, bella e prosperosa; lui ha appena fatto aumentare il massimale dell’assicurazione sulla vita della moglie. E lei è sparita.
Come se non bastasse questo quadretto già di per sé dannatamente sbilanciato, all’opinione pubblica viene servita una rappresentazione ancora più esacerbata della situazione, grazie ad Ellen Abbott (Missi Pyle) la solita anchor-woman più sessista che femminista, una delle decine di barbaradurso senza scrupoli che infestano non solo la nostra ma, vivaddio, anche le televisioni d’oltreoceano. Trovato il mostro, eccolo sbattuto non solo in prima pagina ma anche su tutti i social network, su tutti i programmi locali e nazionali, perché nel 2014 in un attimo tutto è virale.
“Cosa pensi?
Come ti senti?
Chi sei?
Cosa ci siamo fatti?
Cosa faremo?”
Ma, ovviamente, la storia non è così semplice. E se c’è un merito particolare, tra i tanti, del film è quello di semplificarla solo in apparenza, piazzando il colpo di scena già a metà film e non banalmente sul finale. Con il risultato che la storia che parte con tutti i crismi del giallo tradizionale (la ragazza sparita e il marito principale indiziato per la scomparsa – omicidio) si apre di colpo in un film totalmente nuovo che diventa in realtà una competizione tra due intelligenze che si conosco fin troppo bene e in cui i due protagonisti, insieme con il pubblico, sono gli unici a conoscere la verità mentre i personaggi di contorno, opinione pubblica in primis, sono fuorviati dalla rappresentazione della storia generata dai media alla quale restano giocoforza ancorati. Anche perché Nick (Ben Affleck) non ha né prove né credibilità sufficienti per rivelare al mondo e soprattutto alla polizia che lo bracca la sua verità, mentre Amy (Rosamund Pike) vive ben nascosta in attesa degli eventi, che secondo i suoi piani dovrebbero portare il marito prima all’arresto e poi alla sedia elettrica. Già, perché in Missouri vige la pena di morte.
Ed è qui che emerge la grande forza della storia, perfettamente calata nella realtà dei nostri giorni in cui i fatti di cronaca diventano oggetto di curiosità morbosa (molto più indotta che genuina) da parte della gente e le disgrazie (o presunte tali) si trasformano in melmose pozzanghere in cui il mondo dei media sguazza senza pietà e senza riguardo. Il tratto distintivo della pellicola, prima ancora del perfetto meccanismo dello scivolamento da un personaggio all’altro delle caratteristiche di psicopatia e sociopatia, è la feroce satira sul vampirismo dei media, protagonisti di analisi psicologiche e sociologiche da quattro soldi e pronti a trarre conclusioni affrettate. In Italia lo abbiamo visto in tutti i delitti di provincia che si sono susseguiti in questi ultimi anni, non consola vedere la stessa distesa di telecamere e taccuini anche davanti a una signorile casa del Missouri. Così come non consola sapere che una parte di questa attenzione mediatica la si deve al fatto che Amy è nota per essere la fonte d’ispirazione dei popolari libri per bambini Amazing Amy di cui i suoi genitori sono autori.
Le telecamere della televisione diventano quindi parte integrante non solo della mise-en-scène ma dell’intera storia come terzo protagonista del racconto, a partire dal momento in cui si tiene la conferenza stampa per avviare la ricerca di Amy fino alla sequenza finale proprio davanti alle telecamere della stessa Ellen Abbott; passando per l’altra conferenza stampa in cui Andie Fitzgerald (Emily Ratajkowski), studentessa di Nick, rivela di avere una relazione con lui; e l’ospitata dello stesso Nick allo show di Sharon Schieber (Sela Ward) in cui recupera in un colpo solo punti di credibilità nei confronti dell’opinione pubblica e la stima, se non l’amore, di Amy che lo guarda rapita dal divano, pronta all’ennesima messa in scena per tornare nuovamente da lui. Ed è l’ultimo colpo di scena, quello che riporta alle domande dell’inizio ma questa volta la risposta necessariamente arriva dopo una vigorosa shakerata delle convinzioni che avevamo prima di assistere al film. Sul confine tra bene e male, tra giusto e sbagliato, tra vittima e carnefice, tra amore e odio.
Tutto perfetto allora? No, di certo c’è qualcosa che non funziona: in primo luogo emerge consistente qualche vuoto di credibilità, ma è evidente come l’ottimo David Fincher (Seven, Fight Club, Benjamin Button, The Social Network, Millennium), che ha Hitckcock tra i suoi riferimenti, abbia mandato a memoria la lezione del maestro: “Un critico che mi parla di verosimiglianza è una persona senza immaginazione.” Perché alcune sequenze, e l’intero capitolo in cui la protagonista Amy, ricercata da mezza America, si rende irriconoscibile semplicemente tagliando e tingendo i capelli, hanno dei livelli di realismo piuttosto bassi. Così come poco credibile risulta la meticolosissima detective Rhonda Boney (Kim Dickens) che si prodiga in capillari indagini su Nick, probabilmente sull’onda della pressione dei media, ma che al racconto di Amy che fa acqua da tutte le parti praticamente non batte ciglio.
In secondo luogo, essendosi giocata (peraltro alla grande) il colpo di scena principale già a metà film, la sceneggiatrice Gillian Flynn, autrice anche del romanzo da cui è tratto, si è trovata con un finale inevitabilmente più debole, e da quanto ha dichiarato lo anche modificato rispetto alla versione letteraria probabilmente nel tentativo di recuperare un climax ormai perduto; un finale che in ultima analisi probabilmente risulta non all’altezza del resto della pellicola e che smarrisce una parte del ritmo trascinante che fa volare via i primi 80 minuti e si perde in un due o tre sottofinali, che sembrano allungare un po’ troppo il bordo, aggiungendo poco alla storia.
Resta comunque un’ottima impressione generale e gli aspetti positivi sono di gran lunga più numerosi dei difetti. La solita impeccabile regia di Fincher, per cominciare: inquadrature impeccabili, scorrimento fluido tra flashback e tempo reale, con un montaggio alternato tra i due punti di vista che dà un grandissimo ritmo soprattutto nella prima parte come già evidenziato, sequenze di grande forza, comprese quelle più evidentemente disturbanti che arrivano come veri pugni nello stomaco dello spettatore. Ottime interpretazioni da parte di Ben Affleck e soprattutto della sorprendente Rosamund Pike (Orgoglio e pregiudizio, An Education, La versione di Barney), straordinaria nel ruolo della dark lady fredda e calcolatrice, che avrebbe fatto impazzire Brian De Palma e che si è meritatamente guadagnata la nomination all’Oscar. E sorprende non poco che la produttrice Reese Witherspoon non abbia reclamato il ruolo per sé o che comunque abbia avuto l’umiltà di farsi da parte.
In sintesi, un film assolutamente da vedere ed eventualmente da rivedere, perché come in ogni buon noir, quando i meccanismi sono ben oliati è un piacere vederli all’opera anche senza la botta di adrenalina tipica della suspense.