Diavolo d’un Pippo Baudo! Era il lontano 1995 quando il motivetto composto da Pippo Caruso e Sergio Bardotti, sigla di quella edizione, iniziò a trapanarci il cervello fino a diventare a tutti gli effetti il jingle ufficiale della manifestazione. E oggi, a vent’anni di distanza, ci ritroviamo distrattamente a canticchiarlo e a chiudere ogni discussione sanremese citando il pay-off che qualsiasi pubblicitario avrebbe voluto avere inventato per quanto è forte, diretto ed efficace: “Perché Sanremo è Sanremo”.
Già, perché Sanremo è indubbiamente Sanremo ed è allo stesso tempo domanda e risposta, causa e conseguenza, principio e fine della sua stessa leggenda che si autoalimenta. Ma se Sanremo è Sanremo, e non ci piove, perché Sanremo è Sanremo? In altre parole, cosa trasforma una manifestazione canora che potremmo definire per molti aspetti datata, obsoleta, anacronistica, in un evento mediatico capace di catalizzare per una settimana intera l’interesse di milioni di italiani (la maggior parte dei quali non consumatori abituali di musica) e le discussioni di migliaia di persone al bar, in palestra, in ufficio, dalla parrucchiera, nello spogliatoio di calcetto?
Provai ad affrontare l’argomento già nel 2002, scrivendo la mia tesi di laurea che verteva appunto sul rapporto tra televisione e musica, e già allora era difficile trovare spiegazioni razionali a questo fenomeno culturale prima ancora che televisivo e musicale. All’epoca si concludeva la prima edizione di Saranno famosi (cioè di quello che poi diventò Amici), mentre X Factor, The Voice e altri talent show erano ancora di là da venire. Tutto però lasciava già pensare che la rapida e inesorabile affermazione di questa nuova forma di competizione musicale avrebbe cannibalizzato il festival fino a farlo sparire. Al contrario, è stato il festival ad attingere a piene mani nel mondo dei talent show, pescandone decine di concorrenti e ben quattro vincitori: Marco Mengoni, Marco Carta, Valerio Scanu ed Emma Marrone.
Nel 2015 quindi il Festival è più vivo che mai e cattura la nostra attenzione, volenti o nolenti, perché in tutti i programmi di MammaRai (dai telegiornali ai rotocalchi di attualità) non si parla d’altro; perché sui network radiofonici nazionali non si parla d’altro; perché sui social media non si parla d’altro; perché al bar, in palestra, in ufficio, dalla parrucchiera, nello spogliatoio di calcetto non si parla d’altro. Nello spogliatoio di calcetto forse si parla anche d’altro, ma sorvoliamo. La vera forza del festival, a mio avviso, è quella di offrire una miriade di diversi livelli di lettura in grado di coinvolgere l’intera popolazione italiana.
Appassionati di musica, certamente. Essendo uno di questi, posso garantire che nel tourbillon dello spettacolo, dei superospiti, dei comici e delle paillettes delle vallette, ci sono anche tanti spettatori che seguono il Festival per ascoltare nuove canzoni e, chissà, magari trovare la prossima hit o la prossima giovane promessa per il futuro. Ma anche un pubblico più nazionalpopolare (un termine non a caso coniato da Baudo proprio in piena onnipotenza sanremese) prevalentemente femminile e meno giovane, interessato maggiormente alla parte di spettacolo (o di avanspettacolo) della manifestazione: i vestiti (in particolare delle vallette e delle cantanti donna), le acconciature, le scenografie, le inevitabili gaffe, le ospitate di qualche divo di Hollywood di passaggio.
Non possono mancare i politici e i commentatori politici, pronti ad analizzare col microscopio ogni singola parola pronunciata (ovviamente con particolare attenzione per il monologo del comico di turno) per pizzicare riferimenti a favore del governo, contro il governo, accenni di satira destinata a bastonare questo o quel politico, il tutto reso ancora più frizzante in caso di elezioni imminenti e conseguente regime di par condicio. E che dire dei giornali scandalistici e i gossipari di professione? La tradizione impone almeno una polemicuccia, il più delle volte imbastita sul niente, un mezzo scandalo montato ad arte tanto per dare qualcosa di cui parlare in pasto al pubblico che, a sua volta, lo accetta sempre di buon grado e si divide, si infervora, discute e si accapiglia come accade per uno dei soliti gialli di provincia.
D’altra parte, gli stessi artisti hanno prima o poi nella vita dovuto cedere al fascino del Festival, e tutti quanti, anche i più navigati, hanno confessato che il palco dell’Ariston fa veramente tremare le gambe (e la voce) come nessuna folla oceanica riesce a fare, tipico effetto di una leggenda che si autoalimenta, che suggestiona come un fantasma di cui non riesci a liberarti e hai un bel raccontarti che i fantasmi non esistono. Negli anni ha visto passare almeno una volta tutti i cantanti di grido, ma proprio tutti: dai cantautori ai cantanti melodici, dai tipici artisti festivalieri alle migliori band indie, dai rapper ai nuovi talenti televisivi. Salvo rarissime eccezioni tutti i grandi nomi sono passati dall’Ariston almeno una volta e chi non ci è mai andato si conta sulle dita di due mani, tra i fenomeni degli ultimi trent’anni addirittura sulle dita di una sola mano: Ligabue, Tiziano Ferro e Cesare Cremonini, con i primi due che almeno un’ospitata se la sono regalata, Ferro proprio quest’anno.
Per spiegare le ragioni per le quali si decide di andare o di non andare (mai) a Sanremo, occorrerà un ulteriore approfondimento, in questa sede mi basta dimostrare che tanto per chi si trova in competizione dall’altra parte dello schermo, quanto per chi si trova con famiglia, amici, partner a formare il divano d’ascolto da questa parte dello schermo, il Festival è molto più che una semplice trasmissione televisiva, molto più che una mera gara tra canzoni, molto più che uno dei tanti eventi musicali.
Che ci piaccia o no, il Festival di Sanremo è quindi a tutti gli effetti un evento mediatico che contribuisce in modo decisivo a definire la nostra identità nazionale. Non a caso non esiste una manifestazione simile in nessun altro Paese, comunque non con questo livello di coinvolgimento di una popolazione intera. Per certi versi (con tempi e modi ovviamente del tutto differenti) svolge la funzione che negli Stati Uniti è appannaggio del Superbowl. Fortunatamente, poi, la nostra identità culturale è formata anche da tanti altri aspetti, in molti casi di natura ben più alta rispetto alle banali canzoni e chiacchiere sanremesi, ma non possiamo fingere che il Festival non sia una parte integrante e importante della nostra cultura di massa, proprio per la capacità di unire davanti allo stesso teleschermo milioni di italiani con caratteristiche così diverse e che per ragioni altrettanto diverse guardano lo stesso spettacolo.
Domani sera, allora, diversi milioni di italiani saranno sintonizzati su Raiuno mentre sicuramente l’hashtag #Sanremo2015 sarà in vetta ai trend topic di Twitter e di tutti i social network. Poi da mercoledì mattina tutti quanti, anche i meno tecnologici, commenteremo quella parte di festival che ci ha davvero appassionato. Magari qualcuno parlerà addirittura delle canzoni.