Nella storia dell’NBA Timothy Theodore Duncan è probabilmente la più forte ala grande di sempre, o la più grande ala forte. Sfumature permesse dalla traduzione abbastanza libera di power forward, il suo tipico ruolo da numero 4, anche se in carriera se l’è cavata alla stragrande anche come centro puro, in particolare dopo la fine della partnership con l’altra twin tower David Robinson e i primi due anelli. Ma quello che conta è che parliamo di un fuoriclasse assoluto del basket professionistico nel suo ruolo, e non solo.
Tim Duncan ha compiuto 39 anni lo scorso 25 aprile e pur sforzandomi non riesco a trovare altri atleti classe 1976 capaci di esprimersi a questi celestiali livelli in sport professionistici. Viene in mente Francesco Totti certo, il più anziano realizzatore della Champions League, ma Totti gioca da fermo. A basket non si può. A basket si attacca e si difende in cinque, finito un possesso devi già essere dall’altra parte a difendere e a basket non puoi aspettare la palla da fermo né difendere senza muoverti. L’integrità fisica di Tim Duncan sarà presto oggetto di studi da parte di medici e preparatori atletici, perché a 39 anni semplicemente non è umano giocare 84 partite con una media di 29 minuti a gara (35 nei play-off) agli infernali ritmi della NBA, una gara ogni 2-3 giorni.
Ma quello della spettacolare integrità fisica è solo uno degli aspetti del talento di Timmy, perché oltre alla quantità, in questi minuti mette anche tantissima qualità. Una doppia doppia di media in carriera (19.5 punti e 11 rimbalzi) già di per sé imbarazzante per chiunque volesse arrischiarsi a un paragone, che sale fino a 21 punti e 11.7 nei play-off. Con 18 punti e 11 rimbalzi di media nell’ultima, sfortunata, serie contro i Los Angeles Clippers. E una solidità difensiva che il numero di stoppate e palle recuperate è capace di misurare solo in parte.
Solo numeri, certo. D’altra parte il basket è lo sport più facilmente misurabile dai numeri soprattutto quelli individuali: ogni volta che un giocatore ha la palla in mano, ogni movimento che fa con o senza palla, ogni azione compiuta dal proprio diretto avversario in fase difensiva viene analizzata, misurata, vivisezionata e restituita sotto forma di statistica. Non ci si può nascondere, soprattutto in attacco: ci sono tiri che devono essere presi, e ci si aspetta che i grandi campioni oltre a prenderlo lo mettano. Ma i numeri, a saperli interpretare, dicono molto. E quelli di Tim Duncan sono semplicemente impressionanti: prima scelta di San Antonio nel 1997 ha sempre giocato per gli Spurs di cui è il top scorer di tutti i tempi, con oltre 25 mila punti in 18 stagioni di cui più di 5 mila nei play-off. Si è così iscritto in un club esclusivo che raccoglie i soli cinque giocatori capaci di questa impresa, gli altri membri sono personaggi come Michael Jordan, Kareem-Abdul Jabbar, Kobe Bryant e Shaquille O’Neal. Per dire, LeBron James (per ora) non c’è.
E oltre a punti, rimbalzi e stoppare, uno sfortunato bronzo olimpico nella più sciagurata spedizione USA alle Olimpiadi (Atene 20004) dai tempi dell’esordio del Dream Team dei pro a Barcellona 1992 e una lista infinita di riconoscimenti individuali tra cui spiccano le 15 apparizioni all’All-Star Game, le tre occasioni in cui è stato premiato come MVP delle finali, mentre in altre due occasioni si è dovuto accontentare del titolo di MVP dell’intera stagione.
Quelli che non raccontano i numeri è il personaggio Tim Duncan, o meglio l’anti-personaggio. In una lega spesso contraddistinta da machismo e da atteggiamenti guasconi in campo e fuori, Tim è un leader silenzioso con un understatement al limite dell’umiltà. Un ragazzo che parla con l’esempio e con i fatti, capace di chiedere scusa ai compagni per un quarto così così nel quadro di una prestazione monstre. Un leader silenzioso che è divenuto l’emblema della franchigia texana non solo per i risultati sportivi ma anche per un modo di comportarsi e di vivere il basket fatto di rispetto per gli avversari e misura nei comportamenti fuori e dentro il campo. Fino a fare diventare le facce impassibili di Kawhi Leonard e del nostro Marco Belinelli, o l’atteggiamento rilassato da “in fondo è solo un gioco” di Boris Diaw come una parte del DNA della franchigia, proprio come il logo con lo sperone. Un uomo che fuori dal parquet sfugge le luci dei riflettori e si dedica alla Tim Duncan Foundation, la sua fondazione che si occupa di ricerca scientifica (soprattutto sui tumori), istruzione e ricreazione sportiva di bambini e giovani.
Un capitano che ha lasciato un’impronta indelebile su una squadra e su una città, dal momento che con gli speroni ha vinto la bellezza di cinque titoli NBA più una finale persa nel 2013 contro la Miami illegale di James, Wade e Bosh, però prontamente ribaltata solo un anno fa. Non che abbia vinto cinque titoli da solo, ci mancherebbe. Il basket è sicuramente lo sport di squadra che maggiormente premia il talento individuale ma la storia dell’NBA insegna che un solo campione non riesce a vincere un anello senza una squadra intorno. Di norma servono tre campionissimi per trasformare una franchigia in un team vincente e, nel caso degli Spurs, gli altri due big three sono Manu Ginobili e Tony Parker, un’altra peculiarità dei texani che accanto al talento di Duncan hanno fatto la storia con un francese e un argentino. Non a caso, i San Antonio Spurs sono la squadra più internazionale della lega con oltre il 50 % del roster non americano (nove giocatori più lo stesso Duncan che, pur cittadino americano, è originario delle Isole Vergini)
Questo incredibile trio, e la direzione accorta di coach Gregg Popovich, sono gli artefici principali dell’epopea degli Spurs dal 1999 fino ad oggi e sono ormai una leggenda del basket e dello sport in generale per fedeltà alla franchigia (Tony arrivò appunto nel 1999, Manu nel 2002) e per avere da poco battuto i record di Kevin McHale, Robert Parish e Larry Bird (i big three dei Boston Celtics degli anni ’80) prima per numero di partite giocate insieme (741 ad oggi) e poi per quelle vinte.
Un dettaglio non irrilevante: mai gli Spurs avevano vinto un titolo NBA prima dell’arrivo di Tim Duncan, da quando è arrivato lui ne hanno vinti cinque. E adesso i tifosi texani si chiedono se ne vinceranno ancora quando Timmy smetterà. Già, perché prima o poi Timmy smetterà. E da più parti si pensa che alla soglia dei 40 proprio quella conclusa sabato notte potrebbe essere stata l’ultima stagione di Tim Duncan. I tifosi degli Spurs, gli appassionati di basket e tutti gli sportivi veri non possono che augurarsi che non sia così. Ma se così fosse, l’immagine di Timmy che abbraccia Chris Paul e se ne va tra gli applausi e gli high five del pubblico avversario dello Staples Center alla fine di gara 7 sarebbe l’ultimo perfetto fotogramma di una carriera irripetibile, e l’eredità più bella che Tim ci potrebbe lasciare. Insieme con la maglia numero 21 appesa al soffitto della AT&T Arena.