Travolgente, ipnotica, istrionica, sensuale, teatrale, folle, esuberante, intensa. Non è facile descrivere con aggettivi il personaggio, ma soprattutto l’artista, Florence Welch, senza dubbio il fenomeno più interessante che la musica britannica, e non solo, ci ha proposto in questi ultimi anni. Si può però provare a farlo utilizzando due immagini, due flash: i primi fotogrammi dello spettacolo entusiasmante che la rossa londinese ha regalato a una Unipol Arena gremita, insieme alla band che con lei forma i Florence and the Machine. Nel primo fotogramma, dopo l’ingresso della band, Florence entra in scena puntualissima in un lungo abito turchese pieno di svolazzi e trasparenze e a piedi nudi come da tradizione, si posiziona davanti al microfono e sposta una mano nell’aria con un gesto teatrale; l’arena esplode. Nel secondo fotogramma, invece, attacca il primo pezzo della scaletta ed il pezzo è What The Water Gave Me (peccato che non sia stata seguita dal suo naturale prolungamento Never Let Me Go) cioè il manifesto che riassume in un solo brano il suo stile musicale e la sua poetica: il titolo viene da un quadro di Frida Kahlo mentre il testo è ispirato dal suicidio di Virginia Woolf che si buttò nel fiume Ouse con le tasche piene di sassi: “Lay me down, let the only sound be the overflow, pockets full of stones”. Difficile immaginare un altro artista con la stessa presenza scenica e gli stessi riferimenti culturali.
Purtroppo il suicidio e le sventure erano all’ordine del giorno in casa Welch, dove la giovane Florence dovette assistere al divorzio dei genitori, alla morte del nonno paterno in seguito a un ictus e al suicidio della nonna materna affetta da malattia bipolare. E per non farsi mancare nulla, si esibì per la prima volta in pubblico, cantando The Skye Boat Song al funerale della nonna paterna, a sua volta vittima di ictus. Normale che i temi a lei cari siano quelli ispirati al rinascimento e al romanticismo poetico: amore e morte, tempo e dolore, paradiso e inferno. E così Florence, nonostante i soli 29 anni, porta già sul volto i segni dei tanti tormenti passati, ma anche il sorriso sincero di chi in qualche modo se li è messi alle spalle, almeno fino al prossimo. Ironizzando anche su una certa passione per il vino (“Another drink just to pass the time, I can never say no” racconta in Delilah) e sulla leggenda che la vuole comporre sempre in seguito a una sontuosa sbronza.
E così con due pennellate si dipinge l’immagine di un’artista tormentata e completa, e di uno show in cui la parte visiva è di fondamentale importanza, ma che tuttavia rimane interamente delegata a Florence e alla sua teatralità. Niente filmati, niente diavolerie video né effetti speciali: c’è un grande schermo che però crea solo giochi di pixel a rappresentare elementi stilizzati (in particolare l’amata acqua), e due piccoli schermi laterali costantemente focalizzati su Florence che rimandano la sua immagine ai meno fortunati delle ultime file. Ma lo spettacolo è tutto nella voce, incredibilmente intensa e precisa, e nelle movenze della Welch che ora si raccoglie come in preghiera per momenti introspettivi (Long & Lost), ora balla sinuosa e sensuale come un’odalisca (la citata Delilah), ora si lancia correndo da una parte all’altra del palco senza perdere un briciolo di precisione nella voce, sale sugli amplificatori, e si arrampica sulle transenne che la dividono dalla prima fila per farsi abbracciare dalla folla, in perfetto stile rock star. D’altra parte Florence è a tutti gli effetti una rock star, tanto per attitudine quanto per sonorità: un indie-rock che però declina secondo la sua personalissima interpretazione, e in cui uno strumento insolito come l’arpa, curiosamente suonata da un uomo, Tom Monger, caratterizza la maggior parte dei pezzi.
E l’onda rock comincia a montare già con il secondo brano in scaletta, la potentissima Ship To Wreck, in cui Florence fa i conti con la sua parte autodistruttiva (“Oh my love remind me, what was it that I did? Did I drink too much?Am I losing touch? Did I build this ship to wreck?”) e che fa definitivamente esplodere il palazzetto in un travolgente saltare e battere le mani. Ma poi, come Florence entra ed esce dalle parti che interpreta come una consumata attrice, la band veste i brani con abiti sempre diversi; passando dal tocco leggero e romantico della citata arpa che punteggia la hit di Lungs Rabbit Heart (Raise It Up), ai toni epici dei fiati che introducono l’inno Queen Of Peace e che ricordano i Muse di Knights Of Cydonia, o che chiudono la canzone manifesto di album e tour How Big, How Blue, How Beautiful. L’ultima traccia dell’album, Mother, vira invece su sonorità blues e su liriche ancora una volta scure e gotiche, riferite alla fine di una storia d’amore. Peccato per l’assenza della parte più soul della musica di Florence: non sono infatti in scaletta né Caught, né No Light, No Light né Lover To Lover, in una setlist che penalizza molto l’ottimo album Ceremonials, presente con solo tre brani.
Non mancano poi momenti intimi, a cominciare da una sorprendente Sweet Nothing, che nasce da una collaborazione con Calvin Harris e che sorprende in positivo, privata della cassa in quarti e degli orpelli di produzione del DJ e producer scozzese. Per Cosmic Love, anch’essa eseguita in versione acustica, l’Unipol Arena ha preparato una fan action con centinaia di cuori illuminati che volteggiano in platea a e che alla fine arrivano sul palco per la sincera commozione di Florence. E nonostante c’entri poco con il percorso musicale della band, non può mancare You’ve Got The Love, in una versione minimale: la cover dei The Source che anni fa ha spopolato in radio facendo conoscere Florence and the Machine al grande pubblico italiano, e che scatena la folla in un grande coro da stadio.
In questa eterna lotta contro i suoi demoni, tuttavia Florence conclude con un finale all’insegna dell’ottimismo: la trascinante Spectrum, già nel titolo, sembra squarciare le tenebre e illuminare il mondo di nuovi colori come testimonia il chorus: “Say my name and every color illuminates, we are shining and we will never be afraid again”, mentre Shake It Out, con Florence che dirige il coro del pubblico, sembra un mantra collettivo fatto apposta per scuotersi di dosso i proprio demoni e rinascere a nuova vita, perché il momento più buio è sempre quello che precede l’alba: “And I am done with my graceless heart so tonight I’m gonna cut it out and then restart, ‘cause I like to keep my issues drawn, it’s always darkest before the dawn”. La scaletta ufficiale si chiude con un’attesissima e trascinante Dog Days Are Over, secondo singolo della carriera della band dopo il post-punk di Kiss With A Fist, retaggio del progetto con Isabella “Machine” Summers, la tastierista che con Florence formava il nucleo da cui prese origine la band.
I soli due bis prevedono il primo estratto dall’ultimo album What Kind Of Man, un pezzo insolitamente trascinato dalla chitarra di Robert Ackroyd e che dopo un inizio lento vede i fiati in primo piano ad accompagnare il crescendo vocale di Florence e del pubblico; e poi Drumming Song che racconta, in ultima analisi, del modo di sentire di Florence (“Sento le cose come un’italiana” spiega a un certo punto raccontando dei soggiorni in Italia con la mamma americana, docente universitaria di storia dell’arte), delle sue sensazioni amplificate e del senso di inadeguatezza, comune a molti, quando ci si innamora di qualcuno e si ha quasi paura di incrociarne lo sguardo. E con questa, ultima, immagine di una ragazza sempre in bilico tra forza e fragilità, tra tensioni autodistruttive e voglia di vivere, la rossa londinese dal vestito turchese si congeda restituendo i cuori che le sono stati lanciati sul palco pieni di suoni, pieni di cose, pieni di vita.