C’è una chiarissima espressione di Bruce Springsteen, nel momento in cui sale sul palco di San Siro e guarda ammirato la scenografia che i suoi fan gli hanno preparato: il secondo e il terzo anello formano la scritta Dreams are alive tonite con cartoncini blu e bianchi (i colori di The River) mentre il primo anello completa l’”installazione” con una grande bandiera italiana. A quasi 67 anni, di cui più di quaranta spesi sui palchi di mezzo mondo, deve averne viste di tutti i colori e non è certo il primo omaggio che i fan gli regalano, ma sul suo viso, rimandato dai maxischermi anche a noi poveri loggionisti del terzo anello, si disegnano i tratti del vero stupore. Scorre con gli occhi la scritta per fare intendere che ha capito e senza inchini e ringraziamenti plateali inizia a fare quello che è venuto a fare e che sa fare meglio: suonare.
In quell’immagine, in quel breve fotogramma, c’è tutto il Bruce uomo e lo Springsteen artista che abbiamo imparato a conoscere e ad amare, contraddistinto da una dote sempre più rara nello show-business: l’onestà. E non parlo dell’onestà utilizzata come una clava da qualche pseudo-politico da due lire, ma di un’onestà ben più alta e di ben altro valore: l’onestà intellettuale. Perché Springsteen con noi è sempre stato sincero: sincera era la rabbia giovanile, la voglia di spaccare il mondo, di fuggire via da vite ordinarie inseguendo corse in macchina, amori sbilenchi, avventure notturne, la grande occasione. In poche parole, il sogno americano. Ugualmente sincera la disillusione della maturità, mai così potente come nel tormentato The Ghost Of Tom Joad, nel vedere quel sogno infranto, strangolato dall’attualità, dalle questioni razziali, dai veterani senza tetto, dalla violenza per le strade. Ed è sincero adesso, ora che anche i lineamenti del suo viso sembra essersi distesi nel sorriso bonario di uno zio gentile (definirlo nonno sarebbe offensivo…), quando sembra solo volersi godere lo spettacolo, non certo per specchiarsi in un vuoto rito autocelebrativo, ma semplicemente per ammirare l’energia del rock’n roll, quello che in quella sorta di garbage time a luci accese trasforma tutto in un’enorme festa.
È il The River Tour, si celebrano i 35 anni (nel frattempo diventati 36) del doppio album simbolo dell’epopea del Boss del New Jersey. A differenza della parte americana del tour, tuttavia, l’album non viene eseguito per intero front to back ma ne vengono estratti solo 14 brani, sempre in rigoroso ordine cronologico ma inframmezzati da altri classici del repertorio springsteeniano. Un tuffo nel passato, certo (d’altra parte solo due canzoni in scaletta sono del terzo millennio: Death To My Hometown e The Rising), ma non un’operazione nostalgia: per quanto possa apparire banale e retorico affermare che le canzoni di Bruce sono senza tempo, la verità è che è esattamente così. La scanzonata allegria di Sherry Darling, il colossale coro che come da tradizione scuote San Siro su Hungry Heart, l’intensissima Independence Day (proprio alla vigilia del 4 luglio), la trascinante Out In The Street sembrano uscite non da un album del 1980 ma dall’esordio discografico di qualche giovane band dei nostri giorni. Solo per limitarsi agli estratti di The River.
Anche la sempre solida E-Street Band non tradisce le aspettative: per quanto il vuoto lasciato da Danny Federici e soprattutto da Clarence Big Man Clemons sia difficile da colmare, la band si mostra carica di una bella energia rock che lascia perdonare qualche imprecisione di troppo e la solita acustica deficitaria che penalizza la piccionaia del terzo anello. Certo, Nils Lofgren sembra lavorare molto più e molto meglio di Little Steven che, dalla sua, porta comunque quella ventata di folklore italoamericano. La sezione ritmica ha invece l’entusiasmo di una teenage band benché Garry Tallent e Max Weinberg viaggino a loro volta verso i 70, mentre Roy Bittan regala brividi con le intro di Because The Night e Point Blank e con i ricami al piano in stile Jerry Lee Lewis; l’assenza della first lady Patti Scialfa è compensata dalla brava Soozie Tyrell che si alterna tra cori e violino, guadagnandosi anche uno degli inviti a ballare su Dancing In The Dark (anche se la più fortunata è una ragazza che imbraccia la chitarra acustica e duetta con Bruce). Jake Clemons fa del suo meglio, e in gran parte ci riesce, per non far rimpiangere lo zio, la cui ingombrante ombra, in tutti i sensi, aleggia su San Siro, soprattutto per la sua presenza scenica. Insomma, una rock’n roll band in palla, pronta ad assecondare il proprio leader in un viaggio entusiasmante e lunghissimo (quasi quattro ore) nella storia della musica, senza un attimo di respiro.
Difficile stilare una classifica delle performance più belle, della lunga sequenza di hit che Springsteen ha inanellato dopo poche parole di saluto e l’esordio con Land of Hope and Dreams, uno dei pochi pezzi che non manca mai di presentare. Di certo l’emozione di riascoltare gran parte dei pezzi di The River è grande, soprattutto per me che ne avevo sentito live solo una piccola parte. Da The Ties That Bind alla già citata Sherry Darling, meravigliosa nella versione dal vivo, da Jackson Cage a Two Hearts, alle travolgenti You Can Look (But You Better Not Touch), I’m A Rocker e Crush On You (“Milano! I got a crush on you!”). Fino alla malinconica Drive All Night che fa pensare al lungo viaggio di ritorno di gran parte dei presenti.
Il resto del set pesca principalmente tra brani storici (spettacolare Spirit In The Night) e hit più recenti come My Love Will Not Let You Down e Death To My Hometown (decisamente la più “moderna”, datando 2012), senza trascurare come d’abitudine importanti cover quali Trapped (di Jimmy Cliff) e Lucille (cover di Little Richard, prima esecuzione nel The River tour 2016 e scelta dal pubblico grazie al lancio di un pelouche sul palco). Per l’attesissima The River lo stadio si illumina delle luci di tutti gli smartphone, come da istruzioni diligentemente illustrate nel volantino distribuito dal bravissimo audience art team italiano. Atmosfera suggestiva al limite della commozione per una versione che, per una volta, dopo tantissime diverse interpretazioni nel corso degli anni, riprende esattamente quella dell’album. Non mancano poi estratti da un’altra pietra miliare del Boss, quel Born In The U.S.A. che nel 1984 ci travolse ancora bambini con un’ondata di incredibile energia incarnata in una tracklist capace di racchiudere dodici potenziali singoli in un solo album, evento rarissimo nella storia del rock, senza la minima traccia di brani considerabili “minori”. Working On The Highway regala la parte più roots del rock’n roll della E-Street Band col suo sapore fifties, Darlington County è uno dei cori più amati dal pubblico e regala un ricordo commosso delle due torri del World Trade Center. I’m on Fire e il suo caratteristico giro regalano l’emozione di struggenti storie d’amore che come coltelli affilati e smussati incidono solchi di 15 centimetri nel mezzo delle anime.
http://www.youtube.com/watch?v=4O_50CBqOKQ
È uno Springsteen tutto sommato ottimista, nonostante non sia certo cieco davanti alle brutture dei nostri tempi, ma sembra che ancora una volta, come ai bei tempi della rincorsa al sogno americano, la speranza prevalga. La sempre toccante The Rising è un inno alla rinascita che nasce sotterraneo ed esplode in un coro che va ben oltre la presenza di 60 mila voci, Lucky Town è un regalo inatteso ma non per questo meno apprezzato, col suo carico di buona sorte e begli auspici, mentre le storiche, splendide, The Promised Land e Badlands (che chiude il set ufficiale) sono la voglia di libertà di un popolo che urla la propria passione. I bis si aprono con un altro caposaldo della discografia springsteeniana come Jungleland, e quando le luci dello stadio piano piano iniziano ad accendersi è l’inconfondibile riff di Born In The U.S.A. a dare il via al momento della festa, anche perché è seguita a stretto giro di posta da una tiratissima Born To Run su cui Jake Clemons dà il meglio di sé.
L’impressione è quella di essere ai titoli di coda ma invece, sempre a luci accese e senza effetti, come tra un gruppo di amici, ecco arrivare un’altra scarica di rock’n roll con Ramrod, Dancing In The Dark (con l’inevitabile scelta dei fortunati danzatori sul palco, emuli di Courteney Cox) e Tenth Avenue Freeze-Out, l’inno della E-Street Band e, in quanto tale, arricchita dalle immagini di Clarence Clemons e Danny Federici sui maxischermi. E siamo infine al divertimento puro con Shout (una cover degli Isley Brothers) che diventa quasi uno spettacolo di cabaret con Bruce in versione animatore che guida il pubblico in cori e balletti. Ancora una volta si direbbe: è finita, invece dopo tre ore e quaranta minuti, il Boss ha ancora voglia di regalare un’ultima perla: da solo, voce e chitarra. È Thunder Road. Il silenzio è religioso, almeno fino all’inciso, poi è un popolo festante quello che da tradizione applaude il verso “I got this guitar and I learned how to make it talk”, un popolo che sì se ne andrà via da questa città stasera, ma in mezzo al quale di perdenti non ce ne sono.