Da un’Arena all’altra: 35 anni di Duran Duran

Simon Le Bon, John Taylor e Dom Brown sul palco dell'Arena

Simon Le Bon, John Taylor e Dom Brown sul palco dell’Arena

C’è un’intera generazione che dovrebbe chiedere scusa ai Duran Duran. Intendiamoci, loro se ne saranno sicuramente fatti una ragione, mentre raggiungevano le vette delle classifiche di tutta Europa, riempivano gli stadi di mezzo mondo e i sogni di milioni di ragazzine alle prese con le prime battaglie contro i propri ormoni. Ma se è vero come è vero che la leggenda secondo la quale gli anni ’80 hanno rappresentato il vuoto culturale (e quindi musicale) è già stata smontata pezzo per pezzo da altri molto più bravi di me, Simon Le Bon e soci sono stati ingiustamente trattati come fenomeni da baraccone per troppo tempo, in quanto rappresentanti massimi di quella nuova ondata (soprattutto britannica) che si impose a partire da quegli anni. Accusati di fare musica di plastica come dei Modà qualsiasi, e altrettanto ingiustamente etichettati come una patinata boy band ante litteram.

D’altra parte, all’epoca, dopo un decennio duro e cattivo, contraddistinto da austerity, anni di piombo e voglia di ribellione, gli anni ’80 si presentarono con giacche di lustrini e paillettes. Da una parte l’edonismo reaganiano, dall’altra la iron lady Margaret Thatcher, in mezzo Bettino Craxi e la Milano da bere: fine della rabbia punk, inizio dell’era del glitter e del mascara; no alle chitarre sfasciate, sì ai sintetizzatori e alle prime diavolerie elettroniche. In tutto ciò si fece più caso alle mèches di Simon Le Bon e all’eyeliner di Nick Rhodes che al basso avvolgente di John Taylor o ai ricami della chitarra di Andy. Eppure tutti quelli che avevano un minimo interesse per la musica e un giradischi in casa possedevano il vinile di Arena, senza obbligatoriamente stazionare davanti al Burghy di San Babila con un Moncler addosso. Perché se altrove gli anni ’70 avevano significato Ramones, Clash e Sex Pistols, dalle nostre parti avevano significato soprattutto Brigate Rosse. Tanto valeva provare a lasciarseli alle spalle ed abbracciare la New Wave.

Ed eccoci qua dopo oltre tre decadi, a completare il percorso che va da una Arena all’altra, iniziato nel 1984. E dopo decenni di abbandoni e rientri, ecco che da ormai dieci anni i Duran Duran sono in formazione tipo, cioè i 4/5 della band originale a cui manca il solo chitarrista Andy Taylor, uscito definitivamente proprio nel 2006 dopo l’ultima reunion e il fortunato album Astronaut. Simon Le Bon, sbarbato e con un impeccabile look in bianco e nero, porta alla stragrande i suoi quasi 58 anni sia come aspetto fisico sia come tenuta vocale: la voce è imprecisa e al limite come è sempre stata, ma le note, comprese quelle alte, le prende tutte. Nick Rhodes sviluppa i suoi caratteristici tappeti di sequenze e synth, impassibile dietro alle sue tastiere e al suo trucco pesante, appena scosso dalla torta di compleanno che gli fanno pervenire sul palco proprio prima dei bis, con tanto di happy birthday to you cantato dal tenore veronese Matteo Zenatti. John Taylor, con la faccia di quello che se volesse di femmine ne sciuperebbe ancora un bel po’, se ne sta un po’ in disparte a suonare lo stesso basso celeste per tutto il concerto, con cui tesse le celebri intricate trame ritmiche, doppiate dalle sequenze di Nick, e in combutta con la batteria di Roger Taylor, che anche se assomiglia sempre più sinistramente a Charlie Watts, ci dà dentro tanto sulle pelli quanto sulle percussioni elettroniche.

Il cielo su Verona non è clemente con i fan della band di Birmingham: quando puntualissime alle 21.15 si spengono le luci, la pioggia cade ancora copiosa come ha fatto per tutto il pomeriggio. Il colpo d’occhio dell’Arena, piena ancorché non esaurita, però non ne risente ed anzi ci guadagna grazie alla variopinta esibizione di K-way, ombrelli e cerate di tutti i colori. I Duran entrano in scena sulle note della sorprendente Paper Gods, prima traccia e title track dell’ultimo album, che sta ormai per compiere un anno; un brano dall’andamento straniante, misterioso ed elegante, sospeso tra le chitarre e l’elettronica di tastiere e ritmiche, e in cui la voce di Simon dimostra fin da subito di essere all’altezza della situazione. Un pezzo di sette minuti, ma che vola via in quello che sembra un rito di ipnosi collettiva. Ci vuole però poco a spezzare l’incanto: la batteria elettronica che introduce l’attesissima The Wild Boys fa scattare in piedi anche i pochi spettatori rimasti ancora seduti; la canzone in versione live prendere un bel suono rock, soprattutto a partire dalla strofa dopo il primo ritornello, pur mantenendo i caratteristici suoni d’epoca. Da consumato performer Simon si concede al pubblico che ricambia con un gran coro, come da prassi; un tuffo nel più classico dei classici degli anni ’80, certo, ma che sorprende per come suoni ancora moderno e attuale.

E se parliamo di classici incredibilmente attuali, cosa meglio della super-hit Hungry Like The Wolf il cui campione è stato recentemente utilizzato dall’ennesima band di ragazzini (5 Seconds Of Summer) nel vano tentativo di emulare un millesimo di quello che hanno fatto i Duran nella storia della musica? 34 anni dopo il suo debutto nell’album capolavoro Rio, il brano mantiene intatta la sua freschezza e in qualche modo riesce a sprigionare un’energia tale che per qualche minuto riesce anche ad interrompere la pioggia. Sono invece i sintetizzatori e le tastiere di Nick Rhodes a caratterizzare un altro caposaldo del synth-pop anni ’80 quale A View To A Kill, già brano portante della colonna sonora dell’omonimo Bond-film, l’ultimo con Roger Moore, in Italia Bersaglio mobile.

Totale cambio di atmosfere e relativo salto negli anni ’90 per il brano successivo, tratto dall’album della rinascita Ordinary World. Come Undone è forse il capolavoro assoluto della band per la sua capacità di unire l’elettronica all’hook di chitarra (creato all’epoca dall’ex membro Warren Cuccurullo) e al basso notturno di John (in realtà assente nell’incisione originale), di unire un testo intensissimo a una delle migliori interpretazioni vocali di Simon. Al di là di qualche sporadico coro, la canzone viene ascoltata in religioso silenzio dall’Arena, in attesa che l’impasto vocale sul ritornello compia la magia, in questo caso è l’ottima Anna Ross a cantare la parte “Can’t ever keep from falling apart”. Con un ulteriore balzo torniamo poi ai giorni nostri con altri due brani di Paper Gods: prima l’esuberante Last Night In The City, con la seconda vocalist Erin Stevenson nella parte di Kiesza, poi l’intima What Are The Chances che Simon canta da seduto sui gradini del palco e che punta a diventare un nuovo classico del repertorio live duraniano, con l’ottimo Dominic Brown alla chitarra che non fa rimpiangere il lavoro di John Frusciante su disco.

 

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Ma è l’ultimo momento intimo prima della svolta funky del set che inizia con la meravigliosa Notorious (“What you say, if I say No-No…?”), su cui aleggia l’ombra della celebre chitarra di Nile Rodgers, tanto è vero che nei lontani anni ’80 ne fu realizzato un mash-up ben riuscito con Le Freak proprio degli Chic. L’ideale seguito non poteva che essere la recentissima hit Pressure Off, che a sua volta vede Rodgers come produttore insieme con l’altro mago della consolle Mark Ronson: il risultato è che l’Arena si trasforma in un’enorme discoteca di gran classe, che potresti immaginare in un locale della Costa Azzurra, dove i due Taylor sparano a cannone la sezione ritmica, mentre Dom funkeggia allegramente alla chitarra, senza trascurare il contributo di Simon Willescroft al sassofono. Simon si diverte a duettare con Anna ed Erin e nonostante la pioggia che torna a battere insistente, la sensazione è quella di essere a una grande divertentissima festa.

Non meno sorprendente è la successiva Planet Earth, il primissimo singolo della band, il cui puro divertimento è percepibile anche sul palco dove John, Dom e i due Simon si avvicinano fino a condividere il microfono, stile Bruce Springsteen e Little Steven. E poi dalla Terra allo spazio il salto è breve, come insegna Neil Armstrong, ed ecco allora che sul maxischermo il nostro pianeta viene sostituito da immagini della Via Lattea, finché non compare, accolta da un’ovazione, il volto di David Bowie, una delle muse ispiratrici della band, a cui Simon dedica come sentitissimo omaggio un passaggio di Space Oddity. Can you hear me, Major Dave?

Giusto il tempo per godersi ad occhi chiusi la ballata Ordinary World con la chitarra di Dom Brown nuovamente sugli scudi, ed è già ora di ripartire con la festa, che continua con due brani che non sono tra le hit più conosciute dei Duran ma che hanno la carica giusta per far ribollire l’Arena. Prima una travolgente I Don’t Want Your Love, subito doppiata da una versione incredibilmente funky di White Lines, il pezzo di Grandmaster Melle Mel tratto dall’album di cover Thank You del 1995. Il colpo di grazia è affidato invece alla hit del 2004 (Reach Up For The) Sunrise, sorprendentemente scarna nell’arrangiamento e ancora una volta con la chitarra in primo piano fino quasi a diventare un pezzo alternative rock e fino a fondersi con New Moon On Monday, tratta dal terzo album Seven And The Ragged Tiger, che getta un ponte ideale verso la successiva The Reflex, altro attesissimo inno da stadio, introdotta dai suoni electro-dance della versione remix.

L’altro storico successo degli esordi Girls On Film chiude il set ufficiale, ma i Duran, con un gesto di umana comprensione nei confronti del pubblico in attesa sotto la pioggia, ritornano immediatamente sul palco per festeggiare Nick e per regalare una suggestiva Save A Prayer per la quale Simon, chitarra acustica a tracolla, chiede alla folla di illuminare l’Arena con le luci degli smartphone. Il gran finale non può che essere affidato alla splendida, intramontabile Rio, urlata dall’intera Arena e sorretta dal solito chirurgico basso di John Taylor, a suggellare uno show di altissimo spessore che porta a scuola una miriade di band di ragazzini che possono solo sognare 35 anni di carriera a questi livelli. E l’unico rimpianto, in una Arena gremita soprattutto di fan della prima ora, è che i tanti ragazzini presenti le sere precedenti per godersi il playback dei Wind Music Awards si siano persi invece questo spettacolo. Avrebbero sicuramente imparato qualcosa.