È sempre un piacere poter godere della musica di giovani artisti italiani, che seguo sempre con simpatia. È un piacere ancora più grande poterne scriverne. Ed è un piacere enorme poter scrivere di artisti che ho avuto la gioia di conoscere e che quindi seguo con ancora più affetto nella loro avventura nel complicato mondo della discografia. È questo il caso di Mikol Frachey, giovanissima cantautrice che ho avuto la fortuna di poter ascoltare diverse volte dal vivo e che poche settimane fa è uscita con il suo primo album, intitolato col suo nome. Un album in cui spiccano la splendida voce della diciannovenne valdostana e una sonorità del tutto inusuale nelle produzioni made in Italy: un country che affonda le radici nei suoni caratteristici della tradizione americana, ma sapientemente declinato secondo i dettami della modernità.
Ma cosa lega le sonorità di Nashville e i dolci pendii intorno a Saint-Vincent? Non possiamo nemmeno pensare alla “West Virginia, mountain mama” di John Denver perché i riferimenti stilistici di Mikol sono altri, come è giusto che sia e come si conviene a una ragazza di diciannove anni.
Ecco allora che l’esperienza country a cui si ispira la Frachey è quella moderna e in qualche modo “contaminata” di artiste come Carrie Underwood e Gretchen Wilson, Shania Twain e, soprattutto, Taylor Swift, che viene citata in maniera implicita ed esplicita a più riprese tra le tracce dell’album. Una contaminazione da intendere nel senso più nobile del termine: quella in cui le canzoni, grazie a produzione e arrangiamenti che strizzano l’occhio all’attualità, diventano semplicemente più fruibili, mantenendo tuttavia intatte le caratteristiche e i suoni della musica country e, cosa molto importante, senza mai scivolare nel banale pop da classifica. Emergono allora altri riferimenti importanti, a loro volta frutto di contaminazioni, tipici di una millennial che ascolta musica contemporanea: dal raffinato pop-folk di Ed Sheeran al country-pop di Sam Hunt, con sfumature che riportano alle venature maggiormente rock di John Mayer.
Non a caso, Mikol non solo scrive interamente e interpreta i sui pezzi, ma suona anche splendidamente la chitarra (acustica, elettrica e dobro), aspetto che si evince chiaramente già in fase di scrittura, così che il suo approccio country si definisce fin dall’ispirazione; come prova di tutto questo basta ascoltare, in rete, la versione dal vivo del singolo Give Me Water, solo voce e chitarra. Sono poi l’arrangiamento e la produzione a miscelare sapientemente strumenti tipici della tradizione americana (chitarra dobro, armonica, banjo, fiddle) e suoni più moderni e contemporanei. Suoni che vedono le chitarre sempre in primo piano, a tratti addirittura rockeggianti: si pensi all’assolo finale dell’ottima Budweiser, il brano sicuramente più rock dell’album, ma anche alla struttura di Blind, con arpeggi quasi brit-pop, diverse parti di chitarra stoppata e una batteria a tratti molto potente.
Tuttavia Mikol non si limita certo a scimmiottare meccanicamente esperienze altrui, ma le rielabora e le fonde con la sua sensibilità per creare una musica personale e originale. Gli elementi di punta sono infatti il suo ottimo songwriting, semplicemente incredibile per una ragazza della sua età, e un minuzioso lavoro di studio per trovare a ciascun brano il vestito giusto. In questo senso la nuova versione di Give Me Water è già una dichiarazione d’intenti: il nuovo arrangiamento alza di una tacca tutti i suoni più riconducibili al country e aggiunge nuovi elementi distintivi, dalla batteria che sembra trottare, ai cori di background, dal fiddle al flauto. Una rivoluzione artistica rispetto ai suoni del singolo e del relativo video, probabilmente dettata dall’esigenza di dare coerenza stilistica all’album.
Le ironiche e trascinanti You’ve Won Again e Jersey hanno invece il sapore di un polveroso ma accogliente diner su una Interstate del Tennessee e sono probabilmente i due episodi maggiormente riconducibili allo stile di Taylor Swift, ma soprattutto introducono una delle caratteristiche principali dei testi di Mikol, cioè una continua alternanza di immagini prese dalla propria quotidianità e dalla sua vita tra le montagne (con frequenti riferimenti al supporto della sua famiglia), e di immagini in puro stile western, frutto delle recenti esperienze negli Stati Uniti e in particolare a Nashville.
L’ottima Stay Away, uno dei pezzi migliori dell’album, per esempio si propone in continuità fin dal titolo (e in un certo senso anche in antitesi) con la swiftiana Stay Stay Stay, ma vira ben presto verso un freschissimo folk, punteggiato da chitarre acustiche ed elettriche, che a tratti ricorda la scozzese Amy Macdonald. Tra i pezzi migliori (forse semplicemente il migliore), citazione d’obbligo per la splendida Where I Belong, che ho avuto la fortuna di vedere crescere pian piano da demo a brano fatto e finito, e che per quanto sorretta da un banjo molto country è in realtà una power ballad con tanto di synth che farebbe invidia a molte rock band più affermate, e in cui la voce di Mikol si esprime al meglio tra strofe quasi sussurrate e un bellissimo inciso cantato a pieni polmoni.
Non manca una classica ballata in perfetto stile country, in questo caso la bellissima e sorprendente Six Strings And A Pen, praticamente una dichiarazione di intenti di Mikol che ne fa una sorta di manifesto artistico della sua musica, presentandosi al pubblico per quello che è e per quello che ha: io sto bene, ho una sei corde e un plettro. Uno dei momenti più intensi e intimi dell’album, in cui spiccano le incredibili capacità vocali della giovane cantautrice e in cui, par di capire, Mikol si toglie anche qualche sassolino rivolgendosi a chi non ha creduto in lei. Molto autobiografica anche la fresca Smalltown Girl tanto da iniziare con la citazione della propria data di nascita, per poi esplicitare la voglia di trovare un proprio posto nel mondo, preferibilmente tra le strade polverose dell’America più profonda. Un brano con atmosfere che riportano a un certo college rock di inizio anni ’80, quello in cui, per intenderci, sono cresciute band storiche come i R.E.M.. A Song For You conclude la tracklist con un dolcissimo, struggente omaggio alla sua famiglia (probabilmente in particolare alla mamma?), per averla sempre supportata e aiutata a raggiungere il suo sogno, parola chiave dell’intero album che, non a caso, è ben evidenziata nella lunga lista di ringraziamenti.
Un esordio davvero convincente quello di Mikol Frachey che già in questo suo primo lavoro dà prova del grande talento di cui dispone e della grande voglia di far conoscere al mondo il tanto che ha da dire. Sono sicuro che la correzione di qualche minima ingenuità e di qualche piccolo errore di gioventù ci consegnerà presto una vera stella del panorama musicale, a cui i media dovrebbero prestare più attenzione.