È ormai chiaro da diverso tempo come la nuova frontiera del music business sia diventata la produzione e la realizzazione di spettacoli dal vivo, molto più redditizi rispetto alla vendita di copie fisiche di CD che ormai hanno un costo non più competitivo all’interno di un’offerta virtuale illimitata: troppo facile oggi l’accesso a contenuti multimediali tramite piattaforme on-line, quando lo stesso streaming è ormai legalizzato e regolamentato, senza nemmeno quel minimo di rimorso di coscienza di anni fa nel trovarsi a piratare musica (o film) illegalmente. L’unico modo per mantenere alta l’attenzione verso un prodotto che fatalmente internet ha banalizzato, rendendolo disponibile anche a un utente bassamente coinvolto e interessato, è allora quello di vendere un prodotto unico e irripetibile come un live show: perché se è vero che nel giro di pochi giorni si possono trovare ovunque i video dello spettacolo registrati con i telefonini, è altrettanto vero che le emozioni del momento dell’evento, del qui ed ora, difficilmente sono registrabili attraverso uno smartphone. E a quanto pare la gente, che riesce a risparmiare sull’acquisto di musica preferendo il download legale (almeno speriamo) all’acquisto di CD, quando non si accontenta dello streaming su Spotify o addirittura dell’infima qualità audio dei video su YouTube, è disposta a sborsare cifre importanti per ascoltare i concerti dei propri artisti, spettacoli che in certi casi definire solo concerti è francamente riduttivo. A patto, però, che lo show offerto sia davvero sensazionale, unico, irripetibile.
In questo campo, è evidente, i Muse hanno ormai fatto scuola: da sempre abituati a stupire il pubblico con spettacoli pirotecnici, palle di fuoco, utilizzo sapiente dei video e dei megaschermi, invenzioni scenografiche mai banali, sono da tempo la rock band da stadio per eccellenza, dimensione in cui si trovano perfettamente a proprio agio. Ed anche il nuovo Drones Tour, concepito invece per palasport e arene, non tradisce le attese: ancora una volta la band di Teignmouth si dimostra all’avanguardia non solo per le scelte musicali ma anche per l’originalità della proposta scenica e teatrale. Ed è così che i tanto attesi droni lo scorso 14 maggio sono atterrati ad Assago, in un Forum gremito che come sempre ha regalato un colpo d’occhio notevole, nonostante i larghi spazi vuoti nel parterre, non è chiaro se dovuti a motivi di sicurezza o a una sovrastima delle dimensioni del palco, e nonostante si trattasse della prima di ben sei date sold-out che hanno spinto il promoter italiano a lanciare l’hashtag #MuseWeek.
Con questo show, Matt Bellamy e compagni spostano di un’altra tacca verso l’alto l’asticella del concetto “la musica al centro” che era stato ideato dagli U2 nel 360° Tour tra il 2009 e il 2011. In questo caso non solo il palco è aperto e sistemato al centro del parterre, permettendo così una visione a tutto tondo da ogni settore dell’impianto, ma è anche rotante in modo che tutto il pubblico, a turno, possa incrociare lo sguardo dei propri beniamini. Allora Dominic Howard ha la sua batteria posizionata ovviamente al centro del palco rotante; alle sue spalle, in realtà un po’ sacrificato in una buca, il “membro non ufficiale” Morgan Nicholls, preziosissimo polistrumentista che affianca i tre Muse alternandosi tra tastiere, sequenze e chitarre. Ai quattro punti cardinali del palco ci sono altrettante postazioni microfoniche su cui si alternano Chris Wolstenholme con i suoi bassi distorti e immaginifici (vedi lo strano strumento che utilizza in Madness, che combina il basso synth Misa Kitara e il suo classico Status Graphite S2) e Matt che, novità assoluta, in più di un’occasione (Starlight ed Uprising per esempio) abbandona l’amata chitarra lasciando il compito dell’accompagnamento ritmico a Morgan per poter scorrazzare liberamente avanti e indietro sul palco, dedicandosi caso mai solo agli assolo. La parte video dello spettacolo viene proiettata su un display ugualmente tondo che troneggia sopra il palco e su impalpabili teli retrattili che scendono a comando dal soffitto; una produzione di altissimo livello, di elevatissimo valore tecnologico e curata nei minimi dettagli, che giustifica senza ombre di dubbio il prezzo di biglietti non certo economici.
Poi, ovviamente, c’è la musica. Lo show è quasi totalmente incentrato sull’ultimo album Drones, a partire dalla scenografia: palle colorate che si staccano dal soffitto come droni, dall’aspetto peraltro assolutamente innocuo, un altro drone più realisitico che si aggira invece minaccioso sulle teste del parterre, chiari riferimenti, anche visivi, ai temi dell’album che da sempre alimentano le paranoie di Matt Bellamy (e di cui chissà fino a che punto è convinto lui stesso): teorie del complotto, lotta per la liberazione da malvagi oppressori, lavaggio del cervello, controllo mentale; fino alla trasformazione degli stessi uomini in droni umani, programmabili e programmati come strumenti di morte. Ne consegue che la band scelga una scaletta che ricalca quasi pedissequamente il percorso del protagonista del concept album, pur tralasciando curiosamente gli ultimi due singoli estratti: gli ottimi Revolt e Aftermath, quasi a voler affermare di non avere nemmeno bisogno di promozione. Un percorso però accanto al quale scorre parallelamente una galoppata tra le hit degli ultimi quindici anni, a partire dal secondo album Origin Of Symmetry da cui, a sorpresa e dopo tantissimo tempo, ripropongono anche la storica Citizen Erased, citata più volte da Bellamy come un ideale ponte tra i loro primi lavori e Drones. E a spezzare un po’ il ritmo di una scaletta altrimenti fittissima, ecco un utilizzo massiccio di preludi, interludi e intermezzi.
I Muse salgono sul palco, puntualissimi, alle 21.05 preceduti da una divisione di uomini-robot (a rappresentare i famosi droni umani di cui sopra) e accompagnati dalle note della anti-preghiera e title-track Drones, pezzo di chiusura dell’album che unisce un testo apocalittico a una musica rinascimentale di Giovanni Pierluigi da Palestrina. Matt si materializza uscendo da una buca posta su una delle due lingue che fendono la folla allungando lateralmente il palco e l’avvio del set è rock’n roll allo stato puro: subito il giro blues in stile Doors di Psycho, ma con un suono molto più graffiante, che in venti secondi fa alzare in piedi tutti i posti a sedere del Forum, e con il coro che afferma orgoglioso che siamo tutti dei fottuti psicopatici. Matt è in formissima, con la solita precisione e potenza nella voce; Reapers, probabilmente il brano più energico dell’ultimo album che dal vivo risulta ancora più potente vede Dominic sugli scudi, lasciando i soliti interrogativi su dove il minuto batterista trovi tutta quella potenza.
Come sempre la band non ama troppo comunicare con il pubblico al di là dei convenevoli di rito, ma preferisce farsi sentire con la musica; tuttavia Bellamy non esita ad invitare la folla al coro tendendole il microfono su classiconi come Plug In Baby, Hysteria, Time Is Running Out e Starlight. Ed è proprio il celeberrimo riff di Plug In Baby che provoca la prima ovazione del Forum con il conseguente trascinante coro sul ritornello. Mentre il primo singolo di Drones Dead Inside riporta a un suono più elettronico, come quello sperimentato nel precedente The 2nd Law; non a caso il primo intermezzo, il primo respiro concesso al pubblico dopo la citata Citizen Erased è proprio una delle due suite che chiudono quell’album: un semplice giro di piano su un basso pulsante, e su cui una voce femminile ripete ossessivamente che “in un sistema chiuso l’entropia può solo crescere”: cioè la seconda legge della termodinamica che ispirò quel lavoro.
The Handler, con gli schermi che didascalicamente disegnano le mani di un burattinaio che sembra manovrare Matt e Chris, abbassa momentaneamente il numero di bpm e di pulsazioni ma solo per preparare il pubblico al cuore della setlist: subito la travolgente Supermassive Black Hole con il solito impeccabile falsetto di Matt a fondersi alla perfezione con i cori di Chris. Poi, curiosamente introdotta dal preludio di Survival, ecco le famosissime note di Starlight sul cui inciso il Forum dà il meglio di sé, e di seguito il già citato basso synth di Chris che introduce nel mondo elettronico di Madness, dopo la consueta jam session con Dom. Il tempo di respirare un attimo con il discorso di John Fitzgerald Kennedy che, come sull’album, introduce la queeniana Defector ed è già ora di un altro coro da brividi, quello di Time Is Running Out, scandito dall’ennesimo giro di basso distorto di Chris, esattamente come la seguente Uprising che regala la botta di adrenalina finale al pubblico. Infatti è poi la suite prog-rock di The Globalist, con finale di Matt al piano, comparso magicamente dalla solita buca, a completare il set con di nuovo la reprise di Drones a chiudere il cerchio.
I bis non sono propriamente bis, nel senso che non c’è soluzione di continuità tra la scaletta ufficiale e le encores: pochi secondi di pausa e, perfettamente in linea con le tematiche dello spettacolo, arriva un’inattesa Take A Bow, una delle invettive più potenti della discografia dei Muse contro governanti e potenti. In quest’ottica Mercy diventa un disperato grido di aiuto da parte di chi non si rassegna a farsi intrappolare dal sistema del malvagio oppressore, e il finale, come da tradizione, non può che essere affidato all’epica Knights Of Cydonia, l’inno di battaglia della band che invita a combattere per la sopravvivenza e per i propri diritti. E come capita da qualche tour a questa parte l’intro è un omaggio di Chris con l’armonica ad Ennio Morricone e alla colonna sonora di C’era una volta il West. E poi, dopo quasi due ore di musica, come se fossero in un piccolo club, i tre scendono dal palco da una normale scaletta, con le luci già accese, e lasciano il parterre scambiandosi high-five con i fan e trovando pure il tempo per qualche selfie attraverso le transenne, in stile NBA. Tutto meravigliosamente incredibile.