Narra la leggenda che alcuni fan riportarono indietro l’album al negozio di dischi. Dopo aver messo sul piatto il lato A del vinile (già, c’era ancora il vinile…) e aver sentito le chitarre fastidiosamente distorte dell’intro di Zoo Station, cambiarono lato e vi trovarono le chitarre ancora più fastidiosamente distorte di The Fly. Così tornarono al negozio e chiesero di cambiare l’album, a loro dire difettoso.
Era il 18 novembre 1991 e, benché si tratti ovviamente di una leggenda (d’altra parte The Fly era uscita già da un mese e si sapeva già bene come suonasse), è un aneddoto che ben racconta cosa abbia significato Achtung Baby nella storia non solo degli U2, ma di tutta la musica rock contemporanea. 25 anni dopo quella fatidica data, resta un album di un’attualità sorprendente, i cui suoni hanno influenzato l’intera decade e anche oltre, fino a ben dentro il terzo millennio. Una di quelle pietre miliari della musica che qualsiasi semplice appassionato non può non conoscere. Della genesi di quel lavoro, dei pesanti attriti tra i membri della band che la accompagnarono, dell’inutile ricerca di ispirazione in una Berlino appena riunita, privata del muro e rappacificata, è stato detto e scritto tutto. Così come della magia che si materializzò in studio seguendo il semplice giro armonico di One e che guidò quattro musicisti convinti di essere ormai al capolinea a realizzare invece un altro album capolavoro e ad assicurarsi altri 25 anni (almeno) di successi. Quindi quello che voglio provare a ricordare oggi, nel giorno di questo importante anniversario, è invece l’effetto che Achtung Baby ebbe su di me, in quello che senza dubbio fu un anno magico per la storia della musica (basti citare Nevermind, Out Of Time, Blood Sugar Sex Magik, il Black Album dei Metallica, il canto del cigno dei Queen Innuendo, Ten dei Pearl Jam, l’addio dei Dire Straits On Every Street, i due Use Your Illusion…). Su un ragazzino di diciotto anni che era solo uno dei tanti che aveva iniziato, quasi faticosamente, ad apprezzare gli arpeggi puliti in delay di The Edge e che di colpo era stato travolto da un muro sonoro di chitarre sature e distorte.
Già, perché per quanto sia stato educato alla buona musica fin da piccolo grazie a un fratello maggiore illuminato (che mi iniziò all’ascolto di Billy Joel e dei succitati Dire Straits su tutti), in età adolescenziale della band di Bono e soci mi arrivava poco. Avevo solo dieci anni quando uscì Pride e, pur essendo stata fin dall’epoca una hit devastante in heavy rotation su Deejay Television, in quel momento non ne coglievo la portata epocale; piuttosto mi chiedevo perché si chiamasse Pride quando per tutto il tempo ripeteva “in the name of love”; lo scoprii solo diversi anni dopo con il testo davanti. Avevo undici anni, invece, quando in vacanza estiva con la scuola venivo svegliato ogni mattina da un brano sconosciuto trasmesso dagli altoparlanti della camerata, che in seguito imparai a conoscere come Sunday Bloody Sunday. Avevo tredici anni, infine, quando i miei amichetti cercavano di convincermi della bellezza di With Or Without You che invece a me, tutto sommato, in quel momento, non diceva granché. Insomma, non si può certo parlare di amore a primo ascolto. E la cosa sia di consolazione a chi ha figli che ascoltano i Modà: c’è tempo per crescere e imparare. Allo stesso modo l’innamoramento con Achtung Baby non fu un colpo di fulmine, ma un lento e paziente corteggiamento; con lui, l’album, che si faceva scoprire a poco a poco, traccia dopo traccia, ed io che pian piano mi abituavo a quei suoni, li metabolizzavo quasi staccandoli dal resto, fino a riconoscere la melodia, e a scavare nella profondità dei testi.
All’inizio però fu solo One: totalmente incantato dall’andamento irrituale del pezzo, dal crescendo disperato, dall’arrangiamento perfetto, dall’incredibile dinamica di un pezzo che parte quasi come un sussurro per voce e chitarra ed esplode in una power ballad che più power non si può, fino a un finale che ti trascina in un’altra dimensione. Recuperai di corsa With Or Without You e lì ebbe luogo l’illuminazione, il riconoscimento del genio: riascoltai il brano in parallelo con One e trovai tutte le presunte regole della hit perfetta scardinate e reinventate. Entrambe costruite su giri armonici banalissimi, a dispetto delle masturbazioni mentali dei maniaci delle settime diminuite e delle quarte sospese, entrambe prive di un vero e proprio ritornello, con buona pace di tutta la retorica sanremese sull’orecchiabilità delle melodie, entrambe per lungo tempo a rischio di essere scartate e di finire nel cestino a causa dell’incertezza sulla direzione da prendere. Salvate in un caso dalla Infinite Guitar di The Edge, nell’altro dall’intervento di Brian Eno, dopo che in seguito all’eccitazione iniziale per la nascita magica del pezzo, One si era persa tra mille overdub e mix diversi.
Insomma, per diversi mesi One fu la mia prima traccia di Achtung Baby, nel senso che partivo da quella e più di una volta la ascoltavo in loop fino a sfinimento. Tuttavia, spesso mi lasciavo invece tentare dalla seguente Until The End Of The World, che ben presto divenne invece la mia traccia preferita numero due (pur essendo la numero quattro): mi innamorai del riff di chitarra e di tutte le parti di The Edge, del bellissimo testo che rileggeva ironicamente ma con rispetto uno dei passi fondamentali del Vangelo, e del verso “in my dreams I was drowning my sorrows, my sorrows they learnt to swim”. Mi trattenni dall’andare al cinema a vedere l’omonimo film di Wim Wenders, ma poi lo vidi con molto piacere un annetto dopo sull’allora Tele+.
Associata ad Until The End Of The World, per me è sempre stata Ultra Violet (Light My Way). Vuoi perché ne condivide la posizione al numero quattro della tracklist sull’altro lato del vinile (per quanto io possedessi il CD); vuoi per il prepotente riff di chitarra che anche in questo caso introduce e caratterizza il brano, vuoi per lo pseudo-ritornello minimale che contraddistingue entrambi i pezzi; vuoi, ancora una volta, per la bellezza del testo. Fatto sta che anche Ultra Violet divenne una mia favorita in breve tempo, nonostante quel “baby, baby, baby” smaccatamente pop per il quale Bono fu preso in giro dai suo stessi compagni. Va però detto che anche in quel caso il buon Paul la sfangò alla grande, riuscendo nell’impresa di infarcire un ritornello di “baby” senza farsi notare troppo. Nell’estate del 1992, accanto all’esordio degli 883 Hanno ucciso l’uomo ragno, era consuetudine suonare nelle discoteche, tra una Rhythm Is A Dancer e una Please Don’t Go, anche Mysterious Ways, singolo già uscito nell’autunno del 1991 ma esploso poi d’estate grazie a quella strizzatina d’occhio al mondo dance che poi gli U2 avrebbero sviluppato nei successivi Zooropa e soprattutto Pop. Non è la mia traccia preferita dell’album, pur riconoscendole un hook di chitarra di gran livello e un ritornello accattivante: la possibilità di poter ascoltare un pezzo degli U2 al posto di, che so, i Datura me la fece tuttavia apprezzare moltissimo. Proseguendo nel “lato B” iniziai presto ad amare Tryin’ To Throw Your Arms Around The World, soprattutto per il basso avvolgente di Adam Clayton, che all’epoca stimavo ancora di più, in quanto si portava a letto Naomi Campbell, molto prima che il mondo venisse a conoscenza dell’esistenza di Flavio Briatore, e per il testo visionario ma non privo di una leggerezza e di un’ironia delicata. Io mi sono sempre immaginato una di quelle belle ubriacature (baze diciamo a Parma) gioiose, cosa che tra l’altro nel 1992 mi accadeva non di rado. Quelle in cui si vuole bene a tutti e si cerca appunto di “abbracciare il mondo intero”.
All’opposto So Cruel non mi parve per nulla ironica, anzi per certi versi suonava proprio disperata, mi diede subito l’impressione che non sarebbe mai stata una hit e che per questa stessa ragione andasse scavata bene a fondo, ascolto dopo ascolto. Era il pezzo meno rock e più elettronico dell’album, tutto minimale, dal beat alle tastiere, dagli archi alla voce di Bono che pure a tratti esprimeva quella che a tutti gli effetti alle mie orecchie era, appunto, disperazione. “Lei indossa il mio amore come un vestito trasparente, le sue labbra dicono una cosa, i suoi movimenti qualcos’altro. Amore, come un fiore urlante. Amore, che muore ad ogni ora”. Una serie di immagini di questi tipo, strazianti, dilanianti, per poi sentenziare: “Dici che in amore non ci sono regole, oh tesoro sei così crudele”. Ecco, mettete queste parole nelle orecchie di un diciottenne non proprio fortunato con il gentil sesso ed otterrete il mio stato d’animo. So Cruel fu in seguito eseguita solo quattro volte dal vivo, ma ben peggior sorte toccò invece ad Acrobat, mai suonata nemmeno una volta, per una serie di motivi che la band ha poi spiegato, alcuni dei quali del tutto condivisibili. Eppure col tempo, dopo aver esplorato in lungo e in largo la discografia degli U2 e aver conosciuti altri appassionati, ho realizzato che i veri fan della band si riconoscono tra gli altri proprio perché amano Acrobat alla follia; ed è stato bello scoprirlo perché io amo Acrobat alla follia. Adoro il suono della chitarra di The Edge; adoro il tempo in 12/8 ambiguo quanto basta per creare un’atmosfera sospesa; adoro il senso di debolezza, inadeguatezza (che ho sempre amato profondamente nelle canzoni, a maggior ragione a quell’età) e addirittura ipocrisia sprigionato dal testo; adoro alcuni versi e soprattutto quel passaggio dalla rassegnazione alla reazione che ho sempre pensato fosse la chiave del pezzo: “e mi unirei al movimento se ce ne fosse uno in cui credere, e spezzerei pane e vino se ci fosse una chiesa in cui riceverli. Perché adesso ne ho bisogno: di prendere la coppa, di riempirla, di berla lentamente, non posso lasciarti andare. Ed io devo essere un acrobata per parlare in un modo ed agire in un altro, e tu sai sognare e allora sogna ad alto volume, non lasciare che i bastardi ti polverizzino”. Cosa aggiungere?
Allo stesso modo imparai ben presto ad amare Love Is Blindness, sebbene all’epoca ne colsi solo metà del significato: sempre per via del fatto di essere un diciottenne diversamente fortunato, mi arrivò forte e chiara la parte del messaggio relativa all’amore romantico (“l’amore è essere ciechi, meglio non vedere”), mentre solo anni dopo, leggendo, capii che c’era una seconda lettura, intersecata finemente con la prima, che parlava dell’amore malato di un terrorista per la propria causa: la cecità davanti alle vittime, autobombe, strade affollate, fili che si lacerano, nodi che si sciolgono, maniglie e candele, meccanismi e freddo acciaio. Tutto mixato insieme a dare una rappresentazione dell’amore, nelle sue più remote e assurde declinazioni, spiazzante e potentissima, chiosata da quel monito che dovrebbe guidarci sempre: attenzione alle “idee pericolose che hanno quasi senso”… In ogni caso, l’aggettivo che mi venne subito in mente per definire il pezzo fu notturno, e credo che a distanza di 25 anni sia ancora quello più azzeccato: l’organo quasi ecclesiale che apre il brano, la voce di Bono sempre molto sotto le righe, quasi dimessa, confidenziale, e infine lo straziante assolo finale di The Edge, registrato al primo take, e suonato con una rabbia a lui sconosciuta, tanto da rompere due corde durante l’esecuzione, a simboleggiare la catarsi per la fine del suo matrimonio con Aislinn O’Sullivan. Meno problemi interpretativi mi diede Who’s Gonna Ride Your Wild Horses: il brano fin dal titolo è abbastanza evidentemente una classica torch song (una canzone sull’amore perduto o non corrisposto), mentre nell’inciso si aggiungono altre immagini relative alla immaginata prossima relazione della persona amata: “chi annegherà nel tuo mare blu, chi assaggerà i tuoi baci all’acqua salata, chi cadrà ai tuoi piedi”. Non è il testo migliore degli U2 e lo stesso Bono se ne è in seguito lamentato, avendo nel cassetto altri versi che poi furono scartati nella fretta di completare il mix; nonostante ciò restano un paio di immagini decisamente potenti che mi fecero pensare alle ragazze che allora mi piacevano: “sei un incidente in attesa di accadere, sei un pezzo di vetro abbandonato sulla spiaggia”. Musicalmente, pur affidandosi a chitarre molto lavorate, è il brano che suona meno in linea con il sound dell’album e quindi quello più immediato e radiofonico; probabilmente per questo fu scelto, un po’ a sorpresa, come quinto e ultimo singolo estratto dall’album. All’epoca il pezzo mi piaceva molto, a risentirla adesso sembra un po’ fuori contesto, fermo restando che rimane due spanne sopra la maggior parte della roba che si sente oggi.
Gli ultimi tre brani furono quelli che impiegarono più tempo a penetrare la mia corazza di diffidenza e, come spesso accade, sono anche tra quelli che alla fine mi sono rimasti più attaccati; l’illuminazione, in questi casi, si materializzò alla prima esecuzione dal vivo. Già, perché l’estate successiva (incidentalmente nel pieno dei miei esami di maturità), gli U2 vennero in Italia per una serie di date negli stadi, ed io andai a sentirli prima al Bentegodi di Verona e poi, proprio grazie al sacrificio di un’amica che quel giorno aveva la maturità e mi dovette vendere il biglietto, anche al Dall’Ara di Bologna. Ricordo ancora perfettamente il momento in cui, mentre aspettavamo di entrare al Bentegodi, durante il soundcheck partì il riff di Even Better Than The Real Thing e la gente in fila esplose in un boato gioioso. Fu in quel preciso istante che avvenne la rivelazione: durante il concerto la ascoltai praticamente ipnotizzato e la elessi immediatamente a mia preferita dell’album, in seguito dedicandola (inutilmente, ça va sans dire) a una serie di ragazze che mi piacevano. Ed era (è) proprio l’opposto di Who’s Gonna Ride Your Wild Horses: sfacciata, sicura di sé, cantata da Bono al massimo della sua sensualità, arrogante nel testo e nelle stilettate di The Edge, autoritaria nell’impartire ordini (Take me higher!), seducente nel dispensare complimenti (You’re honey, child, to a swarm of bees). Ancora oggi nella mia top 5 all-time dei brani degli U2.
E, per chiudere il cerchio, concludo con i primi due brani di ciascun lato, quelli alla base della leggenda di cui si parlava: Zoo Station e The Fly. Esattamente come i fan storici, rimasi completamente spiazzato da questi suoni così diversi dagli arpeggi rassicuranti di I Still Haven’t Found What I’m Looking For e simili, che tra l’altro avevo appena iniziato ad apprezzare; anche in questo caso, molto fece la performance live. Va anche detto che tanto Zoo Station (prima traccia) quanto Even Better Than The Real Thing (seconda traccia) erano fortemente penalizzate dal fatto che iniziassi sempre ad ascoltare il CD da One (terza traccia), il che rendeva particolarmente complicata l’impresa di imparare ad apprezzarle senza ascoltarle mai. L’epifania di Zoo Station fu soprattutto visiva: l’apparizione in scena di Bono che marciava col passo dell’oca sullo sfondo di maxischermi e Trabant appese, mentre partivano le fucilate distorte di The Edge e la batteria acida di Larry, diede un senso tutto nuovo al pezzo che, nell’istante stesso in cui la melodia si aprì ed entrò il basso di Adam, fece breccia nelle mie orecchie e nel mio cuore. Mi affezionai in particolare alla frase “il tempo è un treno che trasforma il futuro in passato e ti lascia lì in stazione con la faccia schiacciata contro il vetro”; e da allora mi sono sempre immaginato un bambino che guarda un treno sfrecciare via dalla stazione, con il naso e le mani appoggiate al vetro e la bocca a disegnare una O di stupore. In quanto primo singolo estratto dall’album, invece, The Fly si sentiva dappertutto tra radio, televisione e Videomusic (ve la ricordate, Videomusic?). Infatti, la vera verità è che il pezzo, in un primo momento, non mi piaceva affatto: troppo cupo, troppo scuro e poco melodico, insomma: troppo destabilizzante. Ma, anche qui, l’esecuzione dal vivo fu una rivelazione: da una parte il suono live, molto meno elaborato che sull’album, dall’altra ancora una volta l’impatto visivo, che in questo caso consisteva in un muro di parole che scorreva sugli schermi a formare alcune frasi prese in prestito, o comunque assonanti, allo stream of consciusness della Mosca, il personaggio inventato da Bono utilizzato per cantare questo pezzo. Un effetto volutamente psichedelico (per certi versi paragonabile all’effetto delle luci stroboscopiche associate ai bassi della musica dance) che cambiò per sempre la mia percezione del brano. Così che alla fine mi innamorai del contrasto tra le parti basse e quelle in falsetto nel cantato, di quel fiume di immagini e aforismi introdotti da “It’s no secret that…” in cui Bono mi annegava con tono così confidenziale, da vecchio amico che ti dà consigli di vita.
Il risultato finale è che oggi, 25 anni dopo quel giorno, periodicamente estraggo dalla sua custodia il CD di Achtung Baby, benché rovinato in più parti, e quando lo infilo nel lettore dimentico completamente l’esistenza del tasto skip, mentrre al contrario molto spesso mi ritrovo a non rimuoverlo per diversi giorni. Tanto non serve nemmeno il tasto loop: il CD torna all’inizio da solo.