La copertina virtuale utilizzata per iTunes
Se è vero, come è vero, che la musica è tra le mie più grandi passioni, non posso non iniziare l’avventura di Bar Mat con la recensione di un album fresco di stampa, e la scelta è ovviamente caduta su Songs Of Innocence, dal momento che il web trabocca di presunti critici musicali e che ormai spalare guano a badilate sugli U2 e soprattutto su Bono sembra essere diventato il più diffuso passatempo mondiale. E chi sono io per tirarmi indietro?Mi sono preparato coscienziosamente, ascoltando l’album almeno una cinquantina di volte e leggendo in rete le recensioni più disparate, da quelle fin troppo entusiastiche come quella di Rolling Stone a quelle al limite, e certe volte oltre, dell’insulto. Anche se poi, scavando con attenzione, tra un insulto e l’altro, arriva sempre un però: “però Every Breaking Wave…”, “però Sleep Like A Baby Tonight…”, però The Troubles…”. Roba che a mettere in fila tutti i “però” vien fuori invece che è un discone.
Ora, il mio punto di vista non è quello di un critico musicale (non ne ho la capacità né le comptenze) ma quello di un fan. Un fan che come molti detrattori non ama particolarmente Bono in versione guru, ma che in un’ottica strettamente musicale ritiene gli U2 la più grande rock band dell’era moderna. Dove “grande” non è una mera misura dei milioni di copie vendute, ma piuttosto la miscela perfetta di songwriting accattivante e diretto (ruffiano? Anche ruffiano, che male c’è?), maniacale ricerca sonora, tecnica tout-court (con buona pace dei tanti detrattori di The Edge), talento e abilità nelle performance live.
Seguo gli U2 “ufficialmente” dal 1987, The Joshua Tree, il giro di basso dritto di With Or Without You: quattro accordi basici con la tonica in ottave, la cosa più semplice del mondo, eppure funziona. Sopra, l’effetto E-Bow dell’infinite guitar di The Edge su uno dei primi loop di batteria che sentivo in un disco rock. Fu amore a prima vista e con Achtung Baby la cotta divenne innamoramento vero. Certo, prima c’era stata Pride e mi ricordo bene il video in bianco e nero su Deejay Television, e ore a chiedermi perché si chiamasse “Pride” quando il ritornello ripeteva ossessivamente “in the name of love”, e finalmente sul giornalino Tutto – Musica e Spettacolo trovai il testo e la parolina “pride” in fondo all’ultima strofa, e me la tradussi e cercai chi mai fosse stato Martin Luther King. Ma avevo solo 10 anni, e la musica si miscelava tutta in un unico grande frullatore, gli U2 con gli Wham!, Vasco Rossi con Nada. In seguito, dopo Achtung Baby, avrei recuperato The Unforgettable Fire e tutta la prima produzione dei quattro di Dublino. Continua a leggere→