Non sono la persona più adatta per commentare il cinema di Quentin Tarantino, visto che dal momento in cui nel febbraio del 1995 in un cinema di Bologna, mi imbattei quasi casualmente in Pulp Fiction è scoppiato un amore vero (clicca qui per leggere i miei pensieri sul film). Ancora più difficile commentare il suo ultimo lavoro The Hateful Eight riuscendo ad aggiungere qualcosa alla perfetta analisi di Matteo Bordone per Internazionale (leggila qui) che ne ha finemente vivisezionato i (tanti) pro senza tuttavia tralasciarne i (pochi) contro.
Riesco comunque a rendermi conto che un regista come Tarantino, e quindi i suoi film, tende a dividere il pubblico in due segmenti ben definiti: chi lo ama e chi lo odia. Questo perché ogni suo lavoro è permeato da quella cifra stilistica, da quella passione per il cinema, da quella brillantezza dei dialoghi, da quel gusto per l’inquadratura che lo rendono immediatamente riconoscibile, e quindi apprezzato o detestato. La stessa, spesso deprecata, iperviolenza che spesso si configura nelle sue espressioni più splatter è diventata col tempo un irrinunciabile marchio di fabbrica, una firma che Tarantino si diverte a mettere nei tempi e nei modi più sorprendenti, giustamente convinto che ormai l’effetto sul pubblico della disintegrazione di teste o di sangue vomitato a fiotti sia decisamente comico.
Eppure, quasi a voler smentire sé stesso, o piuttosto a voler spiazzare il pubblico in attesa della prima testa mozzata già dai titoli di testa, in The Hateful Eight per almeno due ore non si spara. Certo, ci sono armi ben in vista, armi minacciose che lasciano prevedere un finale di massacri; ci sono cadaveri, fin dall’inizio: il cospicuo bottino di un cacciatore di taglie, caricato sul tetto della diligenza. Ma nella prima parte le vere armi sono le parole, con cui gli otto protagonisti si sfidano sul filo della provocazione e dell’astuzia, cercando di svelare il meno possibile di sé stessi e di scoprire il più possibile degli altri sette.
Perché in The Hateful Eight nessuno è veramente chi dice di essere, nemmeno i personaggi più ovvi sono alla fine così ovvi, e Tarantino si diverte a giocare con loro, in una sorta di Grande Fratello ante litteram (parliamo del diciannovesimo secolo) rielaborando da par suo il classico dell’enigma della camera chiusa, riferendosi in particolare ad Agatha Christie e ai suoi Dieci piccoli indiani. In un’orgia di riferimenti da accanito cinefilo qual è, Tarantino si diverte a mischiare i generi, con la leggerezza del B-movie e la maestria del cinema d’autore. L’ambientazione western con i suoi stereotipi di genere (lo sceriffo, il cacciatore di taglie, il boia, il messicano, il cowboy), il più classico giallo in chiave whodunit di ispirazione hitchcockiana (la mano misteriosa che avvelena il caffè), l’action-thriller, per quanto confinato nelle quattro pareti dell’Emporio di Daisy, che, ovviamente, si risolve in un altro cliché del cinema tarantiniano: il mexican stand-off.
Poi c’è il vezzo di Tarantino per le citazioni, come sempre copiose, sottili e colte. Dall’ovvio riferimento a I magnifici sette a John Ford, dai western di Sergio Leone (non a caso per la prima volta il regista è riuscito a lavorare con il suo idolo Ennio Morricone) ma anche di Sergio Corbucci fino alle serie televisive come Mannix o Bonanza; da Il bacio della morte a La cosa fino al più ovvio Red Rock West. Non mancano infine le autocitazioni: dall’evidente riferimento, stilistico e temporale, al precedente Django Unchained (di cui con ogni probabilità The Hateful Eight sarebbe dovuto essere il sequel), ai dialoghi ispirati a Le iene e Pulp Fiction, da cui riprende inoltre la sequenza dello sparo ai testicoli, mentre lo stratagemma del nascondiglio sotto al pavimento di legno arriva da Bastardi senza gloria, e molti aspetti del film sembrano riprendere il lungo e palpitante inizio dello stesso film in cui Christoph Waltz mette magistralmente in scena il suo nazista a caccia di ebrei.
Il resto sono le solite, incredibili, visionarie capacità di sceneggiatura e regia di Quentin Tarantino: dialoghi iperrealistici (le prime due ore praticamente prive di azione volano via rapidissime) che fanno a pugni con le caratterizzazioni fumettistiche dei personaggi e delle situazioni volutamente esagerate e grottesche; le inquadrature da artista della cinepresa; La capacità di sorprendere il pubblico, inserendo di colpo una voce narrante (Tarantino stesso nella versione originale) per introdurre il lungo flashback che ridefinisce tutti i personaggi, dando così una virata spiazzante sia a livello di messa in scena, sia a livello di sceneggiatura. Menzione speciale per la meravigliosa fotografia di Robert Richardson, che toglie il fiato quando riprende l’ostile ma incantevole foresta del Wyoming tormentata dalla bufera, che si muove caldissima nei dettagli dell’interno dell’emporio, con i fiocchi di neve che sembrano in tre dimensioni, che riempie gli attori di luci ed ombre dando loro profondità e realismo, attori tutti perfettamente in parte e in stato di grazia, a partire da un favoloso Tim Roth e una tenace e bistrattata Jennifer Jason Leigh fino alla rivelazione Walton Goggins.
I difetti? Certamente una certa prolissità (167 minuti sono forse eccessivi), che paradossalmente si manifesta maggiormente nel cruento e movimentato finale piuttosto che nel lungo prologo, e un certo autocompiacimento di Tarantino che sembra ogni tanto essere seduto al tuo fianco in platea, a darti di gomito dicendoti “Visto quanto sono bravo?” Ma per gli appassionati di cinema, quello di Tarantino, ancora una volta si conferma Cinema con la C maiuscola, e The Hateful Eight si inserisce di diritto nella galleria delle sue opere più riuscite.