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Bosch, il detective di Michael Connelly attraversa l’aula e sbarca in TV

Michael Connelly

Michael Connelly

Sono sempre stato un appassionato di letteratura contemporanea, che ho sempre preferito alla narrativa classica, pur ovviamente apprezzando le affascinanti sfumature del romanzo ottocentesco. Tuttavia non mi ero mai seriamente appassionato al genere mystery stories (al meno quello declinato in chiave moderna) finché una quindicina di anni fa non ho conosciuto Michael Connelly e, soprattutto, il suo personaggio-icona: il detective Harry Bosch. Da wannabe-writer, sono rimasto impressionato dalla sua abilità di costruire gli intrecci, di dare corpo e personalità ai personaggi con solo minimi accenni di descrizione fisica, dalla capacità di entrare nelle pieghe della criminal law americana, tanto dalla parte dell’accusa quanto da quella della difesa, in questo caso con l’altro suo personaggio simbolo: l’avvocato Mickey Haller, noto anche come “the Lincoln lawyer”, che ha in comune con Bosch niente meno che il padre, un avvocato di successo che non ha mai però riconosciuto Harry come suo figlio.

D’altra parte gli esordi dello scrittore di Philadelphia furono proprio nei panni del “reporter di nera” del Los Angeles Times, dopo il suo trasferimento in California: la visuale da insider sia del lavoro sul cop beat all’interno della redazione di un giornale, sia dei meccanismi nel Los Angeles Police Department e delle sue infinite divisioni fanno delle opere di Connelly dei capolavori di realismo, in cui i personaggi di fantasia si fondono perfettamente con luoghi, situazioni e avvenimenti reali. I racconti di Connelly sono infatti inseriti in contesti spazio-temporali iper-realistici ed in continuo movimento: le sue storie sono spesso legate a fatti di cronaca vera (dal pestaggio di Rodney King e le relative proteste, fino al processo di O.J. Simpson o alle polemiche relative agli ultimi atti dell’ex governatore Schwarzenegger, pure mai nominato direttamente) e ambientate nella pura contemporaneità ed in luoghi reali e minuziosamente descritti. Così che l’evoluzione di Los Angeles dal 1992, anno di The Black Echo (tradotto inopinatamente in La memoria del topo in italiano) al giorno d’oggi è anche uno spaccato vivo di storia americana. Verrebbe da dire da un Clinton a un’altra, almeno secondo i sondaggi.

Harry Bosch è il classico personaggio che buca la pagina, non a caso il suo lungo percorso letterario lo vede protagonista di ben diciannove romanzi (comprendendo The Wrong Side Of Goodbye in uscita il prossimo novembre) per tacere di altre apparizioni in ulteriori opere di cui non è attore principale, e Connelly lo ha immaginato, creato e descritto in modo da creare empatia con il lettore, disposto a perdonargli anche qualche non raro peccatuccio veniale, in nome della ricerca della giustizia ad ogni costo.

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The Hateful Eight, lezione di cinema di Tarantino

La locandina di The Hateful Eight

La locandina di The Hateful Eight

Non sono la persona più adatta per commentare il cinema di Quentin Tarantino, visto che dal momento in cui nel febbraio del 1995 in un cinema di Bologna, mi imbattei quasi casualmente in Pulp Fiction è scoppiato un amore vero (clicca qui per leggere i miei pensieri sul film). Ancora più difficile commentare il suo ultimo lavoro The Hateful Eight riuscendo ad aggiungere qualcosa alla perfetta analisi di Matteo Bordone per Internazionale (leggila qui) che ne ha finemente vivisezionato i (tanti) pro senza tuttavia tralasciarne i (pochi) contro.

Riesco comunque a rendermi conto che un regista come Tarantino, e quindi i suoi film, tende a dividere il pubblico in due segmenti ben definiti: chi lo ama e chi lo odia. Questo perché ogni suo lavoro è permeato da quella cifra stilistica, da quella passione per il cinema, da quella brillantezza dei dialoghi, da quel gusto per l’inquadratura che lo rendono immediatamente riconoscibile, e quindi apprezzato o detestato. La stessa, spesso deprecata, iperviolenza che spesso si configura nelle sue espressioni più splatter è diventata col tempo un irrinunciabile marchio di fabbrica, una firma che Tarantino si diverte a mettere nei tempi e nei modi più sorprendenti, giustamente convinto che ormai l’effetto sul pubblico della disintegrazione di teste o di sangue vomitato a fiotti sia decisamente comico.

Eppure, quasi a voler smentire sé stesso, o piuttosto a voler spiazzare il pubblico in attesa della prima testa mozzata già dai titoli di testa, in The Hateful Eight per almeno due ore non si spara. Certo, ci sono armi ben in vista, armi minacciose che lasciano prevedere un finale di massacri; ci sono cadaveri, fin dall’inizio: il cospicuo bottino di un cacciatore di taglie, caricato sul tetto della diligenza. Ma nella prima parte le vere armi sono le parole, con cui gli otto protagonisti si sfidano sul filo della provocazione e dell’astuzia, cercando di svelare il meno possibile di sé stessi e di scoprire il più possibile degli altri sette.

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