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Max Gazzè scuote Reggio Emilia al Palabigi

Max Gazzè sul palco del Palabigi

Max Gazzè sul palco del Palabigi

Per chi come me, ahimé, ha ormai un bel 4 davanti all’età questi anni duemiladieci sono una certa tortura: la giovinezza vissuta quasi interamente negli anni novanta produce una quantità intollerabile di frasi che cominciano con “Ma pensa, sono già passati vent’anni da quando…”. Il Palabigi di Reggio Emilia, pieno e bello carico, sembra in effetti popolato principalmente da giovani adulti con in bocca proprio quella frase: “Ma pensa, sono già passati vent’anni da quando è uscito Contro un’onda del mare”, il primo album di Max Gazzè che, infatti, celebra adeguatamente l’anniversario dedicando quasi più spazio agli estratti di quel lavoro che a quelli del nuovo album in promozione Maximilian.

Poi è vero che in realtà il grande pubblico iniziò a scoprirlo solo l’anno dopo, con i tre singoloni che lo lanciarono ai piani alti dell’airplay: prima Cara Valentina, poi Vento d’estate (con l’amico Niccolò Fabi) e La favola di Adamo ed Eva, tutti inseriti nell’album omonimo uscito nel 1998, dove già si trovavano ben germogliati i semi dello stile di Max Gazzè, caratterizzato da una varietà sonora ricercata, frutto delle tante esperienze fatte in Europa come turnista e produttore, e da un approccio ironico alla composizione sia nei testi, spesso dissacranti ma non di rado profondi e intensi, sia nelle musiche, con arrangiamenti spesso sospesi tra il raffinato e il kitsch. Quando, con una bella mezzora di ritardo, inizia il concerto c’è già la prima sorpresa: Max entra in scena restando sul fondale, munito di microfono ad archetto, e si diletta in evoluzioni con le braccia seguite da  scie di colore proiettate dal video alle sue spalle, mentre canta l’ultimo ottimo singolo Mille volte ancora. Dalla stessa posizione prosegue con Megabytes, curiosamente scelta insieme con la successiva Questo forte silenzio a rappresentare Ognuno fa quello che gli pare? (2001) piuttosto che Non era previsto o Il debole tra i due. Al terzo brano finalmente guadagna la sua posizione al centro del palco e soprattutto imbraccia il basso per la recente I tuoi maledettissimi impegni (Sanremo 2013) che rivela la parte più sarcastica e graffiante delle sue liriche, peraltro in questo caso molto ricercate, nella frustrazione di un uomo al quale la propria donna non trova tempo da dedicare: “Potrei farti da fermaglio per capelli se per sbaglio ti venisse voglia di tenerli su. Oppure travestirmi da molecola di vento e accarezzarti impunemente il viso, mentre non hai tempo. E non c’è una soluzione se non essere l’involucro di ogni funambolico pensiero che ti viene, quando le giornate sono piene dei tuoi maledettissimi impegni!”

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L’incanto della semplicità. Il live di Erica Mou al Cortile Café

EricaMou

Erica Mou durante il concerto al Cortile Café

Avete presente quando siete al buffet dell’aperitivo e, dopo aver spizzicato olive, patatine, pop corn, noccioline, sedani, carote, crostini col salame, cracker col Philadelphia e, quando va grassa, quadratini di focaccia e di piadina scarsamente farcita, finalmente arriva la pizza? L’assalto delle cavallette è tale che a stento si riesce a recuperarne un piccolo trancio e mentre lo ingurgiti in due bocconi, già allunghi il collo per vedere se ne è rimasto un pezzo (pia speranza) o se ne portano ancora (arriverà, ma tra almeno venti minuti). La verità è che se sei fortunato riesci a servirti a malapena due volte, e resti lì con la voglia di pizza e l’ultimo sedano in mano e il bicchiere dello spritz vuoto, e la vita ti sembra uno schifo.

 

Bene, immaginate che la mia pizza si chiami Erica Mou (mi perdoni per questa licenza) e che per assaggiarla sia dovuto scendere fino in Puglia per averne appunto solo due piccoli bocconi: il primo nell’estate del 2014 durante un contest per giovani cantanti (Fasano Talent Festival) a Pezze Di Greco, ridente borgo nei pressi di Fasano nel brindisino. Borgo ridente sì, ma in cui per l’occasione la temperatura era scesa fino a circa quattro gradi (in agosto, in Puglia!). La seconda nell’estate del 2015 a Martina Franca con (forse) un paio di gradi in più, ma dopo un violento temporale che stava per mandarmi malinconicamente a casa, in T-shirt e bermuda e senza ombrello, se non fosse stato per il baracchino dei panini con le bombette che mi aveva aiutato ad ingannare l’attesa mentre i poveri, efficientissimi e volenterosi organizzatori dell’evento asciugavano l’asciugabile e mettevano in sicurezza tutti i collegamenti elettrici inopinatamente allagati. In quel caso, quale premio per la mia costanza, ottenni la mia prima foto con Erica, documentata qui di seguito.

EricaMat

In entrambi i casi, comunque, avevo assunto solo piccole dosi omeopatiche di Erica (5/6 brani, venti minuti circa per ciascuno spettacolo) restando, per l’appunto, con la voglia. La voglia di qualcosa di bello e di buono che sei riuscito appena ad assaggiare ma di cui ambisci all’indigestione. D’altra parte iniziavo anche a temere che la presenza contemporanea mia e di Erica nello stesso posto creasse particolari congiunzioni astrali tali da rendere possibili, se non probabili, eventi atmosferici di scarsissima frequenza, quali per esempio una nevicata alle Bahamas. Per questo mi sono accostato con una certa prudenza alla sua data in programma a Bologna (al nord) e per di più a gennaio (in inverno), temendo come minimo una muraglia di due metri di neve sull’intera A1, o per lo meno da Milano a Orte. Ma la voglia di mangiarmi la pizza intera (finalmente un suo concerto completo) ha prevalso su tutti i timori legati alla generazione involontaria di catastrofi naturali e ancora una volta, la scelta è stata premiata.

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A Head Full Of Dreams. Chi ha paura del pop dei Coldplay?

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I Coldplay e la loro esplosione di colore

È un bivio davanti al quale si sono trovate tutte le grandi band, quelle dal successo planetario che riempiono gli stadi e muovono le masse. Una volta giunti a cinque o sei album, a quindici anni di onorata carriera, bisogna prendere una decisione che fatalmente scontenterà qualcuno, spesso tutti. Restare uguali a sé stessi e correre il rischio di essere accusati di ripetitività e monotonia o provare ad intraprendere strade diverse e correre il rischio di essere accusati di tradimento da parte dei fan storici, nostalgici per definizione. E la maggior parte delle volte, cambiare strada ha significato lasciarsi sedurre da suoni contemporanei, verrebbe da dire di moda. I Rolling Stones e la svolta disco di Miss You, gli U2 di Pop e la collaborazione non proprio riuscita col mago della techno Howie B, fino ai Muse e alle venature sinfoniche di The Resistance e l’electro-synth-rock di The 2nd Law. Ai Coldplay era già capitato, per la verità, di percorrere strade nuove, quando nel 2008 spiazzarono gran parte del loro pubblico con Viva La vida Or Death And All His Friends, un album decisamente diverso dai tre fortunatissimi lavori precedenti che li avevano consacrati come la band più importante del primo decennio del millennio. Ma l’accoglienza in quel caso fu ottima. Altrettanto non si può dire per A Head Full Of Dreams, settimo lavoro in studio della band, che ha fatto storcere il naso alla critica e a più d’uno dei sopracitati fan storici. L’accusa, mossa con somma indignazione da parte degli integralisti del rock, è quella di essere un album dannatamente pop.

Ebbene sì, è vero: è un album pop. Con più di una sfumatura elettronica (dai tappeti sonori dei pad ai suoni delle percussioni), che però è dosata con criterio e miscelata con eleganza ai marchi di fabbrica della band: i giri di pianoforte delle ballate più intense, i geniali riff di chitarra, i cori da stadio e, ovviamente, la voce inconfondibile di Chris Martin. E sono proprio le vicende personali del frontman ad influenzare come mai prima l’intera realizzazione dell’album, solo lui poteva riunire nello stesso disco, benché non nella stessa traccia, la voce della sua ex moglie Gwyneth Paltrow e quella della sua nuova compagna Annabelle Wallis. La delusione per la fine della relazione con Gwyneth, che già segnava inequivocabilmente le atmosfere cupe e spettrali di Ghost Stories, è finalmente superata e la nuova storia d’amore si traduce in un’esplosione di suoni, colori (da tutto il concept grafico ai titoli delle tracce strumentali), allegria e leggerezza. Come Mylo Xyloto, molto più di Mylo Xyloto, perché privo di momenti acustici dal momento che anche le ballate hanno un suono grosso, elettrico ed elettronico che profuma di power pop più che di cantautorato intimista.

Allora sì: parliamo di un album pop, ma nel senso migliore del termine, perché c’è il pop di plastica dei teen idol che durano il tempo di trovarne un altro più giovane e carino, e poi c’è il pop di qualità, fatto da band e artisti che hanno qualcosa da dire, e che sanno scrivere, arrangiare, suonare, cantare, produrre una hit senza per forza vendere l’anima al mercato. A Head Full Of Dreams rientra senza discussioni in questa categoria: colorato, divertente, leggero, allegro. Sì, sfacciatamente allegro in una sorta di caleidoscopica reazione ai lugubri fantasmi di Ghost Stories che adesso acquisiscono tutto un altro senso, così come ne acquista il ponte gettato verso nuovo mondo rappresentato allora da A Sky Full Of Stars, peraltro di qualità decisamente più bassa rispetto ai pezzi più disco e funky del nuovo lavoro.

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Un anno dopo, Cremonini l’è semper un etar quel!

CesareBallo

Cesare e Ballo sul palco dell’Unipol Arena

Era il 6 novembre dello scorso anno e in quell’occasione, davanti al pubblico di casa, sembrava che Cesare Cremonini avesse raggiunto l’apice della sua carriera nel corso dello straordinario concerto-evento nella sua Unipol Arena. Già, sembrava. Perché esattamente dodici mesi dopo, nello stesso posto, Cesare ha alzato di un’ulteriore tacca l’altezza della sua asticella e l’ha agevolmente superata atterrando morbido morbido sul materasso degli undicimila cuori urlanti di Casalecchio, incantati da uno show semplicemente perfetto in cui il re del pop italiano non si è risparmiato, regalando due ore e un quarto di musica e di grande spettacolo. D’altra parte, parlando del suo ultimo lavoro in studio Logico, lo stesso Cremonini lo aveva descritto come un punto di partenza, non certo di arrivo, attorno al quale definire la propria identità di artista. Un artista che rispetto a un anno fa ha solo quattro nuovi brani in repertorio (gli inediti del live Più che logico che dà il nome a questo tour) di cui tre su quattro entrano prepotentemente in scaletta, ma ha soprattutto una nuova dimensione da performer, quasi da showman.

Perché oltre a cantare e suonare, e ci mancherebbe altro, Cesare parla, racconta, intrattiene. Rispetto all’anno scorso non c’è più Joe Tacopina, volato qualche chilometro più in là sulla laguna, ma resta l’amore per il Bologna e per Bologna che trasuda da tutte le canzoni. Delizioso quando gigioneggia con le ragazze (non si vedevano lanci sul palco di reggiseni, rigorosamente rossi, dai tempi d’oro dei Duran Duran) lamentandosi del fatto che secondo Spotify il suo pubblico è prevalentemente maschile, e rivendicando simpaticamente di aver dato vita ai Lùnapop proprio per avere ragazze ai suoi concerti. “Io non dovrei stare qua sopra – spiega Cesare visibilmente commosso – dovrei stare giù in mezzo a voi, dove ho visto decine di concerti e partite di basket”. E si vede che gli si muove davvero qualcosa dentro davanti alla folla dei suoi concittadini.

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Tenete un posto per Erica Mou

Erica Mou durante uno dei suoi showcase

Erica Mou durante uno dei suoi showcase

Se cercate un facile ritornello sanremese, leggero ed orecchiabile con una bella rima baciata da fare invidia a Eros Ramazzotti, non ascoltate Erica Mou. Se cercate un’altra cantante pop identica alla precedente, alla perenne ricerca della nota più alta, più lunga, più potente dentro a una canzone fotocopia, non ascoltate Erica Mou. Se cercate una ragazza copertina che fa parlare di sé per il look, per i flirt e per il gossip più che per la sua musica, non ascoltate Erica Mou. Se cercate Erica Mou sui grandi network radiofonici o nei principali programmi televisivi non la troverete. Ma cercatela altrove, perché ne vale la pena. Ed il suo ultimo lavoro Tienimi il posto chiarisce il concetto una volta per tutte, anche per i più difficili da convincere.

L’abbiamo apprezzata nel 2012 a Sanremo con la sorprendente Nella vasca da bagno del tempo, terza classificata nella sezione Giovani dopo aver collezionato tutti i premi della critica possibili, una canzone di una maturità sorprendente per una ragazza di 22 anni quale era Erica all’epoca e in cui espressioni solo apparentemente poco liriche come “lobi a penzoloni” trovano invece una perfetta collocazione poetica in un testo profondissimo e sorprendentemente adulto. Ce ne siamo definitivamente innamourati (così si chiama la sua fandom) l’anno successivo con l’album della consacrazione Contro le onde e soprattutto con il capolavoro Dove cadono i fulmini, la splendida sintesi di un lavoro in gran parte ispirato dal mare e ad esso dedicato. Ora, a due anni di distanza e dopo aver chiuso il rapporto con la Sugar di Caterina Caselli, la cantautrice di Bisceglie torna con il suo quarto album, ancora più maturo, ancora più intimo, ancora più personale grazie alla produzione curata dalla stessa cantante insieme con i suoi musicisti e collaboratori, un album quindi totalmente indipendente per il quale il MEI le ha attribuito un premio come prima cantautrice indie nella Top 25 dei dischi più venduti in Italia, proprio grazie a Tienimi il posto.

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Luciano e il suo popolo. Ligabue trionfa a Campo Volo

Il megaschermo allestito per Campo Volo 2015

Il megaschermo allestito per Campo Volo 2015

Difficile commentare il megaconcerto di Luciano Ligabue a Campo Volo prescindendo dalle considerazioni legate all’evento più che al concerto: numeri da record, afflusso da record, durata da record, allestimento da record, polemiche da record. Un paio di aspetti devono quindi essere chiariti subito: si è trattato della grande celebrazione di massa di un ego smisurato? Certamente sì, è stato anche questo. D’altra parte chi sceglie di salire su un palco e sottoporre la propria musica al giudizio del pubblico lo fa sognando esattamente quel momento, come spiega ottimamente lo stesso Ligabue nel manifesto Tra palco e realtà (“Abbiamo un ego da far vedere ad uno bravo davvero un bel po’”).

Valeva la pena paralizzare per una settimana un quarto di una piccola città di provincia per realizzare uno spettacolo di questa portata che ha praticamente raddoppiato il numero di abitanti di Reggio Emilia per una sera? Ancora una volta sì. E non tanto, prosaicamente, per il semplice indotto economico che l’evento ha inevitabilmente generato, ma proprio per l’evento in sé. Una grande festa, un bellissimo spettacolo, uno show che ha portato non solo Ligabue ma l’intera città sotto i riflettori delle televisioni, sulle prime pagine dei giornali, tra le onde d’etere delle radio. Indubbiamente i disagi per i cittadini di Reggio potevano e dovevano essere gestiti meglio, ma qui si esula dalle competenze e dalle responsabilità di una macchina organizzativa che per quanto riguarda quello che è successo dentro all’arena di Campo Volo è stata impeccabile.

Sgombrato il campo da questi dubbi, non resto che lo show, bellissimo. Il megaschermo collabora, senza essere invasivo, alla perfetta riuscita dello spettacolo, rilanciando per il 90 % le immagini del palco (a beneficio di chi proprio non può vederlo), talvolta creando giochi e frame tra il palco, la folla e le immagini dei vecchi videoclip. E non resta che la musica. Tanta. Tantissima. Infinita. 40 canzoni, 3 ore e 40 minuti di concerto con solo due brevi pause per il cambio palco tra le tre band che hanno accompagnato Luciano lungo il percorso attraverso tre diverse epoche della sua vita e della sua carriera. Come era ampiamente annunciato, infatti, in occasione del venticinquesimo anniversario del suo primo omonimo album, Ligabue lo ha suonato integralmente con la band di allora, i Clan Destino. Allo stesso modo ha eseguito per intero Buon compleanno Elvis, che invece compiva vent’anni, con La Banda che lo accompagnava nel 1995.

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Torino 5 settembre, la lezione di rock degli U2

Gli U2 suonano Invisible da dentro lo schermo

Gli U2 suonano Invisible da dentro lo schermo

Era il 1993 e un’intera generazione sognava di sentirsi cittadina della neonata Unione Europea, la Germania appena riunificata ne era l’emblema e Berlino, con i suoi frammenti di muro, ne era il simbolico centro. Due anni prima gli U2, cogliendo alla perfezione lo Zeitgeist, avevano registrato proprio a Berlino il loro capolavoro Achtung Baby, un album che avrebbe influenzato l’intera scena rock di tutti gli anni ’90 e non solo; un album spiazzante per i fans storici, una rivelazione per noi ragazzini che conoscevamo sì Pride e Sunday Bloody Sunday, New Year’s Day e With Or Without You, ma che all’epoca, fino a quel momento, eravamo presi da altri suoni.

E così quell’anno ero là ai miei primi concerti degli U2 (già perché uno solo mi sembrava poco) e in particolare ricordo il secondo, il 17 luglio al Dall’Ara di Bologna, subito dopo l’orale della maturità. Ad ascoltare quasi tutto Achtung Baby e a rimanere incantato da tutto il resto, dalle meraviglie estratte dai primi album, con il rammarico di ancora non conoscere a sufficienza quei riff coinvolgenti, quegli arpeggi in delay, quelle parole così sentite cantate dalla voce più emozionante che si potesse immaginare.

E poi c’era lo show. I maxischermi, le immagini, le scritte che scorrevano veloci, la televisione, la polemica sulla televisione. Prima Zoo TV e poi Zooropa, un modo allora del tutto innovativo di coniugare musica e spettacolo. Uno sguardo visionario sull’Europa che non avremmo voluto, su una società che stava cambiando e non necessariamente per il meglio.

Due rinnovi della patente dopo, i timori, le paure, i problemi, i temi all’ordine del giorno sono, non  troppo sorprendentemente gli stessi, e allora l’atmosfera che si respira all’Innocence+Experience Tour ricorda dannatamente quella di ventidue anni fa. Certo, sul palco non ci sono più le Trabant, simbolo della fu Germania Est, ma al centro di tutto c’è ancora l’Europa, e al centro dell’Europa c’è ancora la Germania, e al centro della Germania c’è ancora Berlino (e la sua cancelliera).

Attorno a questi temi si dipana una scaletta ricchissima e, a tratti, inattesa, ma anche perfettamente coerente nella sua logica linearità, sospesa tra l’esigenza di offrire il meglio di un repertorio ormai sconfinato e toccare i tanti temi cari a Bono. Il quale, per inciso, non rinunci al suo ruolo di predicatore e di combattente per le sue battaglie civili (una su tutte la fondazione RED che lotta per la ricerca sull’AIDS) ma lo fa con un garbo e una leggerezza, senza interrompere il flusso delle emozioni, che nei tour più recenti sembravano scomparsi.

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I droni dei Muse nel cielo di Roma

Matt Bellamy sul palco di Rock In Roma

Matt Bellamy sul palco di Rock In Roma

Parlare di consapevolezza, di self confidence, di maturità quando si parla di una band attiva da quasi vent’anni e ai vertici mondiali da almeno un decennio può suonare strano se non assurdo. Eppure l’impressione che si ha lasciando l’ippodromo delle Capannelle dove i Muse hanno tenuto il loro unico concerto italiano nell’ambito del festival Rock In Roma è proprio quella che siano cresciuti, cresciuti insieme con il loro pubblico. Un pubblico composto e ordinato come raramente si trova tra i fan del rock, impassibile (o quasi) nelle lunghissime ore di attesa sotto il sole cocente fino a che non è finalmente sceso sotto al palco posizionato strategicamente verso ovest, paziente nel tollerare l’ora abbondante di ritardo con cui si presenta sul palco la band di Teignmouth, generoso nell’applaudire l’ottimo opening act, i londinesi Nothing But Thieves di cui sentiremo parlare ancora.

Ma soprattutto un pubblico partecipe, rumoroso pur nella sua compostezza, che ha regalato allo show quel tocco in più di scenografia che l’allestimento basico del festival aveva tolto dal solito usuale spettacolo di luci e colori cui ci hanno abituato Matt Bellamy e compagni. La scelta di presenziare a tutti i principali festival estivi piuttosto che portare in giro il proprio tour significa essenzialmente questo: scalette più brevi e più concentrate sulla carriera invece che sull’ultimo, fortunato, album Drones; allestimenti basici e poco spazio per i voli di fantasia; la musica rimessa al centro con pochi orpelli, come ci insegna proprio la svolta back to basics dell’ultimo lavoro.

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I Muse e i loro Drones tornano alle radici

La copertina di Drones

La copertina di Drones

Lo avevano annunciato subito dopo il trionfale tour del 2013, immortalato in nel memorabile DVD Live at Rome Olympic Stadium: dopo due album dedicati alla sperimentazione di suoni nuovi (sinfonici in The Resistance, elettronici in The 2nd Law) i Muse sarebbero tornati back to basics, cioè al suono essenziale chitarre (tante), basso (mai così poco distorto) e batteria (mai così potente). Per farlo si sono affidati alla coproduzione di uno che di quei suoni ne mastica un po’: Robert John “Mutt” Lange, già produttore di capolavori dell’hard rock come Highway To Hell e Back To Black degli AC/DC, che affianca Matt Bellamy, Chris Wolstenholme e Dom Howard dietro alla consolle.

Quello che non cambia è l’approccio al progetto in termini di concept album, tanto caro a Bellamy che trova inesauribili fonti di ispirazione (da 1984 di George Orwell e alla sua teoria del Grande Fratello alla seconda legge della termodinamica come metafora dell’insostenibilità del sistema in cui viviamo) ma che alla fine torna sempre a farsi risucchiare nelle pieghe delle teorie del complotto e della lotta per la liberazione contro subdoli e malvagi oppressori. Le tesi di fondo del lavoro, mai come in questo caso dal chiaro approccio socio-politico, sono due: la prima è la feroce polemica sull’utilizzo dei droni come strumento di distruzione a distanza che deresponsabilizza chi distrattamente schiaccia un bottone dal caldo della propria stanza, la seconda è la trasformazione degli stessi uomini in droni umani, programmabili e programmati come strumenti di morte, grazie al lavaggio del cervello e del controllo mentale, altra ossessione cara a Bellamy.

Per la prima volta, quindi, Drones è un album concettuale a tutti gli effetti, in cui si snoda la vicenda di un uomo solo apparentemente vivo (Dead Inside) in quanto trasformato in uno strumento di morte grazie al lavaggio del cervello (Psycho), che nonostante la sua inascoltata richiesta di pietà (Mercy) diventa uno dei mietitori di cadaveri (Reapers) nelle mani dei mandanti (The Handler) dell’autorità costituita. Ma che già alla fine del pezzo inizia la sua lotta interiore per liberarsi dal controllo dell’oppressore: “Non vi lascerò più controllare i miei sentimenti, non farò più quello che mi viene detto, non ho più paura di camminare da solo, lasciatemi andare, lasciatemi stare, sto scappando dalla vostra presa, non mi possederete mai più”.

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Negrita live. Pace, amore e gioia infinita.

Pau durante il concerto di Casalecchio

Pau durante il concerto di Casalecchio

La misura della crescita dei Negrita negli ultimi anni la dà la lunga lista di brani storici non presenti nella scaletta della seconda tappa del tour di promozione del loro ultimo album 9, attualmente nella Top 5 della FIMI dopo il debutto direttamente al numero uno. D’altra parte dopo oltre vent’anni di carriera il repertorio della band aretina è talmente vasto che l’ovvia e insindacabile scelta di dare spazio ai nuovi brani comporta necessariamente tagli dolorosi.

Non che i ragazzi si risparmino sul palco dell’Unipol Arena di Casalecchio, tutt’altro: due ore di show, ventitré brani suonati tra vecchi successi e novità, una scarica di energia rock con pochi orpelli, sonori e visivi, poco spazio per le ballate e tante chitarre graffianti. Pau è il solito splendido, incredibile, animale da palcoscenico, di gran lunga il miglior frontman nel panorama musicale italiano: canta, balla, salta, corre, parla, scherza, intrattiene, emoziona. Drigo invece ha l’aria di uno capitato lì per caso ma quando attacca i suoi riff killer si capisce che l’energia è tutta nel plettro, mentre Mac lo asseconda con la sua ritmica a formare quel suono ruvido e onesto che è la cifra stilistica della band. Completano la formazione Ghando alle tastiere, Cris alla batteria e l’ultimo arrivato Giacomo (Rossetti) al basso.

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