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Chi non vuole vivere a La La Land?

Emma Stone e Ryan Gosling in una scena del film

Chi non vorrebbe vivere a La La Land? Un luogo dove non ci sono computer, e-mail e social network, dove ci si dimentica di scambiarsi il numero di telefono con l’appuntamento della sera dopo, dove Los Angeles è un luogo di sola bellezza, privo di tensioni sociali, criminalità e pestaggi. Dove l’unica concessione alla modernità sono le automobili di oggi e i telefoni cellulari, o magari una cover di Take On Me o di  I Ran piazzata a sorpresa nel bel mezzo di brani jazz e tipiche canzoni da musical. Sì, perché il film scritto e diretto da Damien Chazelle è in tutto e per tutto un musical, esattamente come quelli a cui ci ha abituato la grande scuola americana, da Cappello a cilindro e Sette Spose Per Sette Fratelli in poi. I protagonisti recitano, cantano, ballano, si scollano dalla realtà e finiscono a danzare nel cielo in mezzo alle stelle, il tutto in un elegantissimo miscuglio di concretezza e fantasia dove la magia e la poesia imperano.

La La Land è un film che secondo i canoni hollywoodiani qualunque produttore avrebbe dovuto bocciare senza mezzi termini, perché alla fatidica domanda posta allo sceneggiatoreRaccontami la trama in trenta secondi”, questi avrebbe dovuto rispondere: “Mia lavora in una cafeteria degli studios e passa di provino in provini sognando di diventare attrice, Seb è un pianista jazz che sogna di comprare il suo locale preferito che hanno trasformato in un “tapas e samba” per tornare a farci suonare le jazz band. Si incontrano, si innamorano, hanno successo in momenti diversi e alla fine realizzano i loro sogni, ma a discapito di… [spoiler]”. Non a caso il copione di Chazelle giaceva intoccato in un cassetto dal 2010, e solo dopo il successo di Whiplash ha potuto trovare un produttore disposto ad investirci i non pochissimi (30 milioni di dollari) denari necessari per la realizzazione, ricavandone peraltro incassi già oltre i 250 milioni di dollari (and counting), per non parlare dei sette Golden Globe e delle quattordici nomination agli Oscar.

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Bosch, il detective di Michael Connelly attraversa l’aula e sbarca in TV

Michael Connelly

Michael Connelly

Sono sempre stato un appassionato di letteratura contemporanea, che ho sempre preferito alla narrativa classica, pur ovviamente apprezzando le affascinanti sfumature del romanzo ottocentesco. Tuttavia non mi ero mai seriamente appassionato al genere mystery stories (al meno quello declinato in chiave moderna) finché una quindicina di anni fa non ho conosciuto Michael Connelly e, soprattutto, il suo personaggio-icona: il detective Harry Bosch. Da wannabe-writer, sono rimasto impressionato dalla sua abilità di costruire gli intrecci, di dare corpo e personalità ai personaggi con solo minimi accenni di descrizione fisica, dalla capacità di entrare nelle pieghe della criminal law americana, tanto dalla parte dell’accusa quanto da quella della difesa, in questo caso con l’altro suo personaggio simbolo: l’avvocato Mickey Haller, noto anche come “the Lincoln lawyer”, che ha in comune con Bosch niente meno che il padre, un avvocato di successo che non ha mai però riconosciuto Harry come suo figlio.

D’altra parte gli esordi dello scrittore di Philadelphia furono proprio nei panni del “reporter di nera” del Los Angeles Times, dopo il suo trasferimento in California: la visuale da insider sia del lavoro sul cop beat all’interno della redazione di un giornale, sia dei meccanismi nel Los Angeles Police Department e delle sue infinite divisioni fanno delle opere di Connelly dei capolavori di realismo, in cui i personaggi di fantasia si fondono perfettamente con luoghi, situazioni e avvenimenti reali. I racconti di Connelly sono infatti inseriti in contesti spazio-temporali iper-realistici ed in continuo movimento: le sue storie sono spesso legate a fatti di cronaca vera (dal pestaggio di Rodney King e le relative proteste, fino al processo di O.J. Simpson o alle polemiche relative agli ultimi atti dell’ex governatore Schwarzenegger, pure mai nominato direttamente) e ambientate nella pura contemporaneità ed in luoghi reali e minuziosamente descritti. Così che l’evoluzione di Los Angeles dal 1992, anno di The Black Echo (tradotto inopinatamente in La memoria del topo in italiano) al giorno d’oggi è anche uno spaccato vivo di storia americana. Verrebbe da dire da un Clinton a un’altra, almeno secondo i sondaggi.

Harry Bosch è il classico personaggio che buca la pagina, non a caso il suo lungo percorso letterario lo vede protagonista di ben diciannove romanzi (comprendendo The Wrong Side Of Goodbye in uscita il prossimo novembre) per tacere di altre apparizioni in ulteriori opere di cui non è attore principale, e Connelly lo ha immaginato, creato e descritto in modo da creare empatia con il lettore, disposto a perdonargli anche qualche non raro peccatuccio veniale, in nome della ricerca della giustizia ad ogni costo.

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The Hateful Eight, lezione di cinema di Tarantino

La locandina di The Hateful Eight

La locandina di The Hateful Eight

Non sono la persona più adatta per commentare il cinema di Quentin Tarantino, visto che dal momento in cui nel febbraio del 1995 in un cinema di Bologna, mi imbattei quasi casualmente in Pulp Fiction è scoppiato un amore vero (clicca qui per leggere i miei pensieri sul film). Ancora più difficile commentare il suo ultimo lavoro The Hateful Eight riuscendo ad aggiungere qualcosa alla perfetta analisi di Matteo Bordone per Internazionale (leggila qui) che ne ha finemente vivisezionato i (tanti) pro senza tuttavia tralasciarne i (pochi) contro.

Riesco comunque a rendermi conto che un regista come Tarantino, e quindi i suoi film, tende a dividere il pubblico in due segmenti ben definiti: chi lo ama e chi lo odia. Questo perché ogni suo lavoro è permeato da quella cifra stilistica, da quella passione per il cinema, da quella brillantezza dei dialoghi, da quel gusto per l’inquadratura che lo rendono immediatamente riconoscibile, e quindi apprezzato o detestato. La stessa, spesso deprecata, iperviolenza che spesso si configura nelle sue espressioni più splatter è diventata col tempo un irrinunciabile marchio di fabbrica, una firma che Tarantino si diverte a mettere nei tempi e nei modi più sorprendenti, giustamente convinto che ormai l’effetto sul pubblico della disintegrazione di teste o di sangue vomitato a fiotti sia decisamente comico.

Eppure, quasi a voler smentire sé stesso, o piuttosto a voler spiazzare il pubblico in attesa della prima testa mozzata già dai titoli di testa, in The Hateful Eight per almeno due ore non si spara. Certo, ci sono armi ben in vista, armi minacciose che lasciano prevedere un finale di massacri; ci sono cadaveri, fin dall’inizio: il cospicuo bottino di un cacciatore di taglie, caricato sul tetto della diligenza. Ma nella prima parte le vere armi sono le parole, con cui gli otto protagonisti si sfidano sul filo della provocazione e dell’astuzia, cercando di svelare il meno possibile di sé stessi e di scoprire il più possibile degli altri sette.

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Quo Vado? Io sto con Checco Zalone

Checco Zalone davanti alla locandina di Quo vado?

Checco Zalone davanti alla locandina di Quo vado?

Non sono tra quelli che si sono sorpresi del successo di Quo Vado?, l’ultimo lungometraggio di Checco Zalone che sta abbattendo a suon di milioni tutti i record del cinema italiano; piuttosto mi sono sorpreso dello stupore che ha generato, dal momento che il comico pugliese non ha mai sbagliato un colpo sul grande schermo: dall’esordio di Cado dalle nubi (14 milioni incassati) fino ai 52 milioni di Sole a catinelle (il film italiano più visto della storia, prima di Quo vado? ovviamente) passando per i 43 milioni di Che bella giornata. Insomma, visti i precedenti e la tendenza a una crescita esponenziale, per lo meno a livello di box office, il clamoroso successo del quarto film dell’attore barese dovrebbe essere tutto meno che inatteso.

Invece, dopo i 14 milioni e mezzo incassati già nei primi due giorni, mezzo Paese si è stupito ed interrogato sulle ragioni di questo exploit. Anzi, per essere più precisi, mezza Italia si è decisamente indignata per le cifre stellari realizzate da Checco, partendo coi soliti pistolotti sul basso livello culturale del popolo italiano, ipotizzando l’imminente fine della nostra millenaria civiltà a causa della partecipazione di massa a una tale banale commediola di terz’ordine. D’altra parte, a proposito di Checco Zalone, è tornato di moda più che mai uno degli aforismi più abusati della storia, quello attributo ad Enzo Ferrari: “Gli italiani ti perdonano tutto, tranne il successo”. Ma nella fattispecie la frase è quanto mai calzante, poi, visto che gli italiani oltre a non perdonare il successo, amano in modo particolare dividersi su tutto: calcio, politica, donne, musica, motori e chi più ne ha più ne metta, non si sono certi fatti mancare l’occasione di schierarsi anche in questo caso in due fazioni contrapposte: da una parte l’intellighenzia dei “salotti buoni” a strapparsi i capelli sdegnata, vaticinando la fine del cinema italiano, dall’altra gli ultra-zaloniani a difendere il proprio idolo con sberleffi e pernacchie.

Checco Zalone è stato, in primo luogo, accusato di essere un prodotto televisivo, dove per televisivo si intende ovviamente prodotto Mediaset, sia per il primo successo del grande pubblico avvenuto grazie alle ospitate di Zelig, sia per la produzione e la distribuzione del film, targate Taodue e Medusa. Chiaro che in centri ambienti “culturali” (le virgolette sono d’obbligo), ancora affetti dal tic dell’anti-berlusconismo militante e viscerale proprio come l’ultimo giapponese che ancora non sa, o non ha capito, che la guerra è finita, la cosa sia vista con estremo fastidio. Va da sé che tali ambienti non si sono mai sognati di dare del televisivo alla loro musa ispiratrice Roberto Benigni (giusto per fare un esempio) che pure, molto più di Zalone, in TV ci è nato davvero.

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Ben Affleck e Rosamund Pike in una sequenza del film

Ben Affleck e Rosamund Pike in una sequenza del film

Lei è bella, è elegante, ha classe; lei ha portato un tocco di stile newyorkese nelle campagne del Missouri; lei è incinta, almeno così sostiene la sua migliore amica o quella che si spaccia come tale. Lei è sparita. Lui ha dovuto abbandonare New York per stare accanto alla madre malata, ma ha perso il lavoro e ora gestisce un bar con la sorella gemella Margo (Carrie Coon); e i rapporti tra gemelli, si sa, sono spesso morbosi, insinua la “gente”; lui non sembra sconvolto dalla scomparsa di sua moglie; lui sorride alle conferenze stampa, lui si fa i selfie con graziose sconosciute; lui, scopriamo presto, ha un’amante giovane, bella e prosperosa; lui ha appena fatto aumentare il massimale dell’assicurazione sulla vita della moglie. E lei è sparita.

Come se non bastasse questo quadretto già di per sé dannatamente sbilanciato, all’opinione pubblica viene servita una rappresentazione ancora più esacerbata della situazione, grazie ad Ellen Abbott (Missi Pyle) la solita anchor-woman più sessista che femminista, una delle decine di barbaradurso senza scrupoli che infestano non solo la nostra ma, vivaddio, anche le televisioni d’oltreoceano. Trovato il mostro, eccolo sbattuto non solo in prima pagina ma anche su tutti i social network, su tutti i programmi locali e nazionali, perché nel 2014 in un attimo tutto è virale.

“Cosa pensi?

Come ti senti?

Chi sei?

Cosa ci siamo fatti?

Cosa faremo?”

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“My name is Wolf, and I solve problems” – 20 anni di Pulp Fiction

pulpfiction

John Travolta (Vincent Vega) e Samuel L. Jackson (Jules Winnfield) in una sequenza

“The path of the righteous man is beset on all sides by the iniquities of the selfish and the tyranny of evil men. Blessed is he who, in the name of charity and good will, shepherds the weak through the valley of darkness, for he is truly his brother’s keeper and the finder of lost children. And I will strike down upon thee with great vengeance and furious anger those who attempt to poison and destroy my brothers. And you will know my name is the Lord when I lay my vengeance upon thee.”                 (Ezekiel, 25:17)

 

Ricorre in questi giorni il ventesimo anniversario dell’uscita nelle sale di Pulp Fiction, il capolavoro di Quentin Tarantino che fece il suo esordio nei teatri americani il 14 ottobre 1994 e, pur amando visceralmente il cinema di Tarantino da Le Iene a Django Unchained, credo che le vette stilistiche raggiunte con “Pulp Fiction” siano in seguito solo state sfiorate, segnatamente in alcune sequenze di Jackie Brown e Bastardi Senza Gloria.

Ricordo di aver assistito alla proiezione in una sala di Bologna, dove allora studiavo, con un amico dell’epoca. Sapevo veramente poco della pellicola, al di là della Palma d’Oro ricevuta al Festival di Cannes ampiamente pubblicizzata sulla locandina, ma ero incuriosito sia dal cast stellare sia dalle prime voci che circolavano sul conto della pellicola. In sintesi, mi trovai di fronte ad un film innovativo (non avevo ancora visto “Le Iene”), spiazzante, divertente, fracassone, profondo, brillante. Ricordo altrettanto nitida mentente che alcune persone intorno a me si alzarono per lasciare la sala dopo circa 20 minuti (più o meno all’altezza del buco in vena di John Travolta / Vincent Vega) mentre io ero completamente rapito dalla storia. Anzi dalle storie.

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