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Classe ed eleganza al potere: il live dei Landlord al Biko Club

I Landlord sul palco del Biko Club

I Landlord sul palco del Biko Club

Dopo il breve assaggio acustico al meet & greet del Semm di Bologna, finalmente ho avuto l’opportunità di ascoltare un intero set dei Landlord, giunti alla terza tappa dell’Aside Tour dopo i pienoni registrati al Covo, sempre di Bologna, e soprattutto al Velvet della loro Rimini: ogni tanto qualcuno propheta in patria riesce ad esserlo. Il club scelto per la tappa milanese è invece il piccolo Biko, di cui un’emozionata Francesca ricorda un episodio di proprio un anno fa: da spettatrice venne ad assistere al concerto di James Vincent McMorrow, e mentre ascoltava uno dei suoi artisti preferiti, sognava di esibirsi proprio su quello stesso palco, così vicino e a contatto con la gente. Un anno più tardi, dopo aver lasciato il politecnico, frequentato il loft più famoso d’Italia e inciso il primo lavoro con la sua band, ecco che quel desiderio si realizza. Il piccolo palco fatica a contenere tutti gli strumenti della band ed è adornato con otto lampade che rendono ancora più intima l’atmosfera, il pubblico è veramente a poco più di un metro di distanza e se nessuno fa un passo ulteriore verso il palco è solo per pudore, per non invadere uno spazio che deve essere doverosamente lasciato agli artisti. Ma siamo tutti lì, incantati dal magnetismo di Francesca; ammirati dalla poliedricità di Gianluca che passa con disinvoltura dalla chitarra alle tastiere e poi ancora all’harmonium; rapiti dai ricami di Luca alla chitarra e dalla sua presenza discreta ma fondamentale come seconda voce; impressionati dai pattern di Lorenzo, che ora picchia con decisione sulle pelli, ora trova suoni elettronici in punta di bacchetta.

La scelta stilistica è infatti quella di riprodurre il più fedelmente possibile il suono che abbiamo potuto apprezzare nell’ottimo primo EP, uscito poco più di un mese fa per Inri Metatron ed intitolato appunto Aside; un suono ricco e pieno senza mai essere saturo, curato nei minimi dettagli e frutto di una costante e quasi maniacale ricerca dell’equilibrio tra parti suonate ed elettronica: il giusto tappeto sonoro per valorizzare la voce calda e delicata di Francesca, che si muove negli spazi lasciati liberi da una musica che non può e non vuole arrivare a riempire le frequenze. Suoni che brillano per raffinatezza ed eleganza, e che in Italia sarebbero classificati come alternativi e indie ma che nel mondo britannico e anglofono fanno invece parte di una corrente importante ormai diventata mainstream, come dimostra il grande numero di artisti che ne fanno parte a vario titolo.

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L’eliminazione dei Landlord e l’inesorabile declino di X Factor

I Landlord sul palco di X Factor

I Landlord sul palco di X Factor

Chi mi conosce sa che fino a due anni fa la mia opinione sui talent show a tema musicale era fortemente condizionata da un enorme pregiudizio nei confronti degli show stessi. Un’opinione che onestamente non è mai mutata per quanto riguarda gli infinitesimali frammenti di trasmissione che mi sono capitati davanti agli occhi di The Voice, Amici di Maria De Filippi o robe simili. Né le performance dei personaggi usciti da questi programmi sono mai riuscite a convincermi della bontà di queste competizioni, anzi hanno piuttosto consolidato i miei pregiudizi e con loro la mia avversione.

Poi nel 2013 mi capitò per caso di imbattermi nelle audizioni di X Factor e soprattutto di imbattermi nella travolgente esibizione di Violetta Zironi (splendida protagonista nel suo graditissimo ritorno ieri sera) quando cantò un’entusiasmante Shortenin’ Bread accompagnandosi con l’ukulele. Decisi allora di seguire il programma, solo e soltanto per lei, e mi dovetti presto stupire di aver scoperto una trasmissione ben fatta, ben confezionata, ottimamente condotta dal bravissimo Alessandro Cattelan e che dava il giusto valore alla musica, presentata in modo ineccepibile, almeno in quella edizione. Certo, di artisti del valore di Violetta in gara ce n’erano pochi, o meglio, non ce n’erano proprio, a prescindere da chi si aggiudicò i primi posti in classifica, ma dal mio punto di vista non speravo certo di trovare i nuovi Bono Vox e Bruce Springsteen in un talent show. C’era Violetta e c’era un programma ben fatto. Tanto bastava.

A distanza di soli due anni e con il giro di boa della nona edizione già alle spalle con cinque degli otto live previsti ormai completati, si può tracciare un primo bilancio di X Factor 9 e l’impressione che emerge è che il sistema sia andato in corto circuito, e che le poche sacche di resistenza dentro le quali cerca di difendersi la musica di qualità siano solo la rappresentazione paradigmatica della schizofrenia di un programma che cerca di mantenersi in bilico tra i Duran Duran e Franco Battiato da una parte e i 5 Seconds Of Summer e Justin Bieber dall’altra, ma che è fatalmente strutturato per creare dei Justin Bieber e non certo dei Simon Le Bon.

Ma quali sono quindi le cause di questa deriva? Proviamo ad andare con ordine.

Se l’aggettivo più insopportabile di X Factor è di certo credibile, l’avverbio che ho imparato ad odiare profondamente nel corso delle puntate è senza dubbio discograficamente. Discograficamente guida le scelte dei concorrenti, discograficamente suggerisce le assegnazioni, discograficamente decreta la sorte degli eliminati. Il problema è che discograficamente significa tutto e niente, per il semplice motivo che nel momento in cui vengono prese decisioni basate sulle potenzialità di un concorrente rispetto al mercato, non ci si rende conto che questo mercato non solo è quello che si è contribuito a creare con le stesse scelte passate che si sono compiute (ed ecco il corto circuito), ma che in realtà del mercato questa è solo una fetta, e non è neanche detto che sia la fetta più sostanziosa perché di gente che ascolta tutt’altra musica e che la compra legalmente rispetto al “modello X Factor” e che assiste a tutt’altri concerti è piena l’Italia ed è pieno il mondo, anche volendo restare nell’orbita del mainstream che comprende musica di alta e bassa qualità in proporzioni quasi uguali.

E anche volendo ragionare in termini di puro marketing, come si fa a parlare di mercato musicale come un unicum, quando è invece uno dei più segmentati che si possa immaginare? Arrivando all’attualità, dell’assurda eliminazione dei promettentissimi Landlord parlerò più avanti, ma come spiegare l’eliminazione dell’ottimo Massimiliano D’Alessandro addirittura in prima puntata, se non per il fatto di non avere l’età e il physique du rôle che la produzione immagina per il suo vincitore modello? Ma allora, in ultima analisi, che senso ha mantenere in vita la categoria degli Over quando l’obiettivo è evidentemente quello di trovare l’ennesimo ragazzino da dare in pasto ad altrettanti ragazzini? Se a X Factor hanno deciso di rivolgersi solo a un determinato target (che poi è quello del concorrente Amici), sarebbe veramente più onesto abolire la categoria dei “vecchi” over 25 oppure limitarla a un’età massima o a un minimo di figaggine acchiappa-ragazzine (vedi alla voce G come Giosada, peraltro ottimo). Sempre restando in ottica mainstream, viene da pensare che se a un ipotetico X Factor 1988 si fosse presentato Luciano Ligabue, sconosciuto ventottenne con alle spalle qualche data in giro nel reggiano con gli Orazero, cantando Neil Young voce e chitarra, molto probabilmente non sarebbe arrivato nemmeno ai bootcamp.

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