Il 20
febbraio viene diagnosticato all’ospedale di Codogno il primo caso di
Coronavirus in Italia, grazie all’intuizione dell’anestesista Annalisa Malara
che ha anche dovuto combattere contro la burocrazia per poter fare un tampone
al paziente dal momento che il protocollo contro Covid-19 prevede semplicemente
di chiedere ai pazienti se erano stati in Cina o avuto rapporti con persone tornate
da là. Nel frattempo il paziente 1 era stato trattato come affetto da comune
polmonite e senza alcuna protezione speciale, anche perché solo tre giorni
prima ancora eminenti virologi televisivi proclamavano con una certa sicumera l’assoluta
impossibilità della presenza del virus in Italia. Settimane dopo, diversi
sanitari delle strutture ospedaliere del Basso Lodigiano ma anche di Parma e
altre città, hanno rivelato di aver registrato un numero anomalo di casi di
polmonite già dalla metà di gennaio. Tirando le somme, tra il 18 febbraio
(primo ricovero) e il 20 febbraio (diagnosi), il paziente uno viene a contatto,
non protetto o scarsamente protetto, con un numero elevatissimo di medici,
infermieri e, probabilmente, pazienti in attesa al pronto soccorso.
Il 22
febbraio viene istituita la cosiddetta zona rossa nel Basso Lodigiano,
tuttavia l’ospedale di Codogno non viene disinfestato: in medicina e terapia
intensiva, restano malati a pochi metri da chi ha il virus e la bonifica è,
dicono, “sospesa”. Ugualmente, non si tracciano persone che sono transitate dal
focolaio, in particolare il famoso pullman che ha portato decine di ballerini
alla discoteca Impero l’8 febbraio, quello che poi porterà il virus in Emilia
Romagna e altre zone d’Italia.
Il 23
febbraio si registrano i primi due casi positivi all’ospedale Pesenti
Fenaroli di Alzano Lombardo, Val Seriana. Il nosocomio viene chiuso per alcune
ore, poi per qualche oscura ragione viene riaperto. Il sindaco Camillo Bertocchi
oggi: “Nessuno ha mai spiegato perché è stato riaperto, poi il virus si è
sparso per le valli”. Fatto sta che da lì parte il terzo focolaio del virus
(quello di Vo’ Euganeo è l’unico rimasto sempre sotto controllo) che sta
mettendo in ginocchio la Bergamasca.
Il 25
febbraio, dopo che i possibili contatti con il paziente uno (dipendente di
una multinazionale, maratoneta e calciatore) sono stati tracciati e testati a
tappeto, il Presidente del Consiglio Conte dichiara: “Con i tamponi per il coronavirus abbiamo esagerato”, Walter Ricciardi,
membro dell’OMS e neo-consulente del Ministero della Salute, chiede che il “grande
allarme”, che comunque non va “sottovalutato”, sia “ridimensionato”. Due giorni
dopo, e siamo al 27 febbraio, lo stesso Ricciardi imporrà lo stop ai
tamponi a chi non presenta sintomi mentre, negli stessi giorni, Franco
Locatelli direttore del Consiglio superiore di Sanità dichiara che “il rischio
contagiosità è elevato nei soggetti sintomatici mentre è marcatamente più basso
nei soggetti asintomatici”; tempo dopo la rivista Science stimerà la percentuale di contagi derivanti da casi non
documentati (asintomatici o presintomatici) nel 79 % dei casi. Ovviamente
esplode il numero di asintomatici positivi.
Sempre il 27
febbraio, dopo solo tre giorni di chiusura parziale delle attività, il
sindaco di Milano Giuseppe Sala lancia l’hashtag #MilanoNonSiFerma (imitato da
altri, su tutti il sindaco di Parma Federico Pizzarotti preoccupato per Parma
2020) per rilanciare la circolazione delle persone, la frequentazione di negozi,
bar, ristoranti, attività. Il segretario del PD Nicola Zingaretti raccoglie l’appello
e si fa riprendere a fare un aperitivo sui Navigli. Sappiamo come è finita.
Contestualmente il leader della Lega Matteo Salvini fa un video per invitare il
Governo ad aprire tutto.
Il 2
marzo la situazione nei comuni della Bergamasca di Alzano Lombardo e la
confinante Nembro è drammatica, i contagi e i decessi si moltiplicano. I
sindaci e il governatore della Lombardia chiedono a gran voce l’istituzione di
una nuova zona rossa nelle valli bergamasche da affiancare a quella del
lodigiano. Il 6 marzo, quattro giorni e moltissimi contagi e decessi
dopo, il Governo, riportano gli organi di stampa, “sta ancora pensando” se
istituire una zona rossa in Val Seriana. Non lo farà.
L’8
marzo (o meglio, la notte tra il 7 e l’8 marzo) il Governo emana un nuovo
decreto che istituisce un’unica grande zona rossa in Lombardia e altre zone
rosse in 14 province tra Veneto, Emilia Romagna, Piemonte e Marche. La sera
precedente viene fatta circolare (ancora non è chiaro da chi: portavoce del
premier? Regione Lombardia?) una bozza del decreto che arriva in tutte le
redazioni, su tutti i siti web, in tutte le chat di Whatsapp. Spaventate dall’idea
di non potersi muovere per settimane, centinaia di persone si affollano sui
treni, su pullman, auto private e addirittura taxi per “scappare” dalla zona
rossa e arrivare al sud. Il 15 % di quelle persone parte con febbre alta, gran
parte di queste sono dirette in Puglia dove contageranno genitori e famigliari.
L’11
marzo il decreto che limita movimenti e attività viene esteso a tutto il
Paese: l’Italia diventa un’unica enorme zona rossa. Gran parte dei governatori
della regione del sud impone l’obbligo di autocertificazione per chi proviene
dalla Lombardia o altre zone “ex rosse” e quarantena in isolamento domiciliare.
Questo però non impedisce il contagio di parenti conviventi.
Il 15
marzo alla stazione di Salerno viene eseguita dagli operatori del 118
guidati dal medico dottor Massimo Manzi un’ispezione del treno 561 Roma Termini
– Reggio Calabria. Risultano presenti nove passeggeri con febbre sopra i 37,5 e
forte tosse, quasi tutti erano provenienti dal nord Italia e non erano stati
controllati né in partenza, né alle stazioni successive, né a Roma. Fino a
Salerno. Vengono raggruppate in isolamento in un unico vagone e fatte
proseguire.
Poi se
oggi, 20 marzo, abbiamo avuto 627 vittime, potete comunque dare la colpa
alle passeggiate.