Ghemon, un successo scritto nelle stelle

Non scrivevo sul mio trascuratissimo blog da diversi mesi, d’altra parte l’astinenza da musica dal vivo (fonte di ispirazione primaria) e di nuove uscite cinematografiche o musicali (fonti di ispirazione secondarie) mi avrebbero obbligato a pubblicare una serie di articoli polemici e politici, su cui ho preferito soprassedere. Mi sono limitato a uno, e conservato rabbia e ironia per i social network.

Quello che serviva per uscire dal torpore emotivo di queste settimane era una grande uscita discografica, in grado di dare un senso a questo tempo monotematico in cui sembra non succeda niente, a parte la caccia a un minuscolo esserino di un centinaio di nanometri, e questo graditissimo e prezioso regalo ci è stato fatto da Ghemon, che dopo un solo terzo di 2020, si è già messo in saccoccia per distacco il titolo di album dell’anno con il suo Scritto nelle stelle.

Questo disco rappresenta senza alcun dubbio lo zenit artistico di Giovanni Luca (Gianluca per tutti) Picariello, coronamento di un lungo percorso che ha visto il cantante avellinese attraversare vari stili, diverse influenze musicali, ma anche difficili vicende personali mirabilmente raccontate nell’autobiografia Io sono. Diario anticonformista di tutte le volte che ho cambiato pelle che due anni fa ha rivelato Ghemon anche come scrittore dotato di una penna incisiva e graffiante, come da sempre suggeriscono i suoi testi. Un anticonformista vero, capace di presentarsi sul palco di Sanremo 2019 con il brano probabilmente più bello della rassegna (quella meravigliosa Rose viola di cui ricordiamo anche una memorabile versione con Diodato e gli amici Calibro 35) e di uscire con un album solo quattordici mesi dopo, “dimenticandosi” di cavalcarne l’hype. Un artista controcorrente (“il genio senza coraggio serve davvero a poco” dice probabilmente di sé stesso) che sceglie coraggoisamente di uscire con questo gioiello in un periodo come questo, nonostante l’impossibilità di “monetizzare” il momento attraverso firmacopie e concerti dal vivo.

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Se pensate che sia colpa di una passeggiata

Il 20 febbraio viene diagnosticato all’ospedale di Codogno il primo caso di Coronavirus in Italia, grazie all’intuizione dell’anestesista Annalisa Malara che ha anche dovuto combattere contro la burocrazia per poter fare un tampone al paziente dal momento che il protocollo contro Covid-19 prevede semplicemente di chiedere ai pazienti se erano stati in Cina o avuto rapporti con persone tornate da là. Nel frattempo il paziente 1 era stato trattato come affetto da comune polmonite e senza alcuna protezione speciale, anche perché solo tre giorni prima ancora eminenti virologi televisivi proclamavano con una certa sicumera l’assoluta impossibilità della presenza del virus in Italia. Settimane dopo, diversi sanitari delle strutture ospedaliere del Basso Lodigiano ma anche di Parma e altre città, hanno rivelato di aver registrato un numero anomalo di casi di polmonite già dalla metà di gennaio. Tirando le somme, tra il 18 febbraio (primo ricovero) e il 20 febbraio (diagnosi), il paziente uno viene a contatto, non protetto o scarsamente protetto, con un numero elevatissimo di medici, infermieri e, probabilmente, pazienti in attesa al pronto soccorso.

Il 22 febbraio viene istituita la cosiddetta zona rossa nel Basso Lodigiano, tuttavia l’ospedale di Codogno non viene disinfestato: in medicina e terapia intensiva, restano malati a pochi metri da chi ha il virus e la bonifica è, dicono, “sospesa”. Ugualmente, non si tracciano persone che sono transitate dal focolaio, in particolare il famoso pullman che ha portato decine di ballerini alla discoteca Impero l’8 febbraio, quello che poi porterà il virus in Emilia Romagna e altre zone d’Italia.

Il 23 febbraio si registrano i primi due casi positivi all’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo, Val Seriana. Il nosocomio viene chiuso per alcune ore, poi per qualche oscura ragione viene riaperto. Il sindaco Camillo Bertocchi oggi: “Nessuno ha mai spiegato perché è stato riaperto, poi il virus si è sparso per le valli”. Fatto sta che da lì parte il terzo focolaio del virus (quello di Vo’ Euganeo è l’unico rimasto sempre sotto controllo) che sta mettendo in ginocchio la Bergamasca.

Il 25 febbraio, dopo che i possibili contatti con il paziente uno (dipendente di una multinazionale, maratoneta e calciatore) sono stati tracciati e testati a tappeto, il Presidente del Consiglio Conte dichiara: “Con i tamponi per il coronavirus abbiamo esagerato”, Walter Ricciardi, membro dell’OMS e neo-consulente del Ministero della Salute, chiede che il “grande allarme”, che comunque non va “sottovalutato”, sia “ridimensionato”. Due giorni dopo, e siamo al 27 febbraio, lo stesso Ricciardi imporrà lo stop ai tamponi a chi non presenta sintomi mentre, negli stessi giorni, Franco Locatelli direttore del Consiglio superiore di Sanità dichiara che “il rischio contagiosità è elevato nei soggetti sintomatici mentre è marcatamente più basso nei soggetti asintomatici”; tempo dopo la rivista Science stimerà la percentuale di contagi derivanti da casi non documentati (asintomatici o presintomatici) nel 79 % dei casi. Ovviamente esplode il numero di asintomatici positivi.

Sempre il 27 febbraio, dopo solo tre giorni di chiusura parziale delle attività, il sindaco di Milano Giuseppe Sala lancia l’hashtag #MilanoNonSiFerma (imitato da altri, su tutti il sindaco di Parma Federico Pizzarotti preoccupato per Parma 2020) per rilanciare la circolazione delle persone, la frequentazione di negozi, bar, ristoranti, attività. Il segretario del PD Nicola Zingaretti raccoglie l’appello e si fa riprendere a fare un aperitivo sui Navigli. Sappiamo come è finita. Contestualmente il leader della Lega Matteo Salvini fa un video per invitare il Governo ad aprire tutto.

Il 2 marzo la situazione nei comuni della Bergamasca di Alzano Lombardo e la confinante Nembro è drammatica, i contagi e i decessi si moltiplicano. I sindaci e il governatore della Lombardia chiedono a gran voce l’istituzione di una nuova zona rossa nelle valli bergamasche da affiancare a quella del lodigiano. Il 6 marzo, quattro giorni e moltissimi contagi e decessi dopo, il Governo, riportano gli organi di stampa, “sta ancora pensando” se istituire una zona rossa in Val Seriana. Non lo farà.

L’8 marzo (o meglio, la notte tra il 7 e l’8 marzo) il Governo emana un nuovo decreto che istituisce un’unica grande zona rossa in Lombardia e altre zone rosse in 14 province tra Veneto, Emilia Romagna, Piemonte e Marche. La sera precedente viene fatta circolare (ancora non è chiaro da chi: portavoce del premier? Regione Lombardia?) una bozza del decreto che arriva in tutte le redazioni, su tutti i siti web, in tutte le chat di Whatsapp. Spaventate dall’idea di non potersi muovere per settimane, centinaia di persone si affollano sui treni, su pullman, auto private e addirittura taxi per “scappare” dalla zona rossa e arrivare al sud. Il 15 % di quelle persone parte con febbre alta, gran parte di queste sono dirette in Puglia dove contageranno genitori e famigliari.

L’11 marzo il decreto che limita movimenti e attività viene esteso a tutto il Paese: l’Italia diventa un’unica enorme zona rossa. Gran parte dei governatori della regione del sud impone l’obbligo di autocertificazione per chi proviene dalla Lombardia o altre zone “ex rosse” e quarantena in isolamento domiciliare. Questo però non impedisce il contagio di parenti conviventi.

Il 15 marzo alla stazione di Salerno viene eseguita dagli operatori del 118 guidati dal medico dottor Massimo Manzi un’ispezione del treno 561 Roma Termini – Reggio Calabria. Risultano presenti nove passeggeri con febbre sopra i 37,5 e forte tosse, quasi tutti erano provenienti dal nord Italia e non erano stati controllati né in partenza, né alle stazioni successive, né a Roma. Fino a Salerno. Vengono raggruppate in isolamento in un unico vagone e fatte proseguire.

Poi se oggi, 20 marzo, abbiamo avuto 627 vittime, potete comunque dare la colpa alle passeggiate.

Colpa delle favole, il nuovo album dell’Ultimo cantautore italiano

Ultimo sul palco dell’Ariston durante lo scorso Sanremo

Nel panorama musicale italiano della fine degli anni ’10, esiste un’evidente dicotomia tra due mondi paralleli, opposti e distanti rappresentata plasticamente dalle polemiche seguite al recente Festival di Sanremo: da una parte Mahmood (classe ’92), rappresentante di una scena alternativa assurta solo di recente a palcoscenici mainstream come appunto quello di Sanremo (suoni elettronici, iperprodotti, uso e abuso di autotune, testi spesso rabbiosi ispirati alla cultura trap). Dall’altra Ultimo (classe ’96), erede della migliore scuola cantautorale romana (da De Gregori a Venditti), con un suono basico e classico sia con il supporto della band, sia nei momenti più scarni e acustici costruiti solo su pianoforte e potenza vocale; e con testi intimi e ispirati alla sua vita, alle amicizie, al difficile rapporto col successo e, soprattutto, all’amore. Nonostante le valutazioni delle varie giurie di onore o di qualità, comunque le vogliamo definire, che hanno preferito la modernità, solo di facciata, di Mahmood, il terzo album di Niccolò Moriconi, in arte Ultimo, conferma una volta per tutte il talento, la poetica e, appunto, la modernità, questa volta reale, del ragazzo di San Basilio.

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Sanremo 2019. Il mio pagellone.

Prima della finale e delle ovvie e scontate polemiche del “Doveva vincere Tizio”, “No doveva vincere Caio”, ecco la mia analisi semiseria dei 24 brani in gara.

ARISA 5,5

La media tra la divertente e divertita parte centrale (7) e le incomprensibili intro e coda (4). Per la serie “Come buttare nel cesso una buona idea”. Il duetto con Tony Hadley versione Stanlio e Ollio non ha aiutato. Peccato.

LOREDANA BERTÈ 7,5

Primo impatto stupefacente. Poi, ascolto dopo ascolto, attorno al formidabile hook del ritornello (che paga il suo debito a “Cosa vuoi da me?” di Samuele Bersani a sua volta cover di “Glastonbury Song”) l’impressione è che resti poca sostanza. Ma l’energia rock di Loredana sopperisce a tutto, bravissima! Bene anche con Irene Grandi.

BOOMBADASH 6,5

Ok, niente di originale nel classico reggaettino col suo bravo e ordinario levare, ma il brano è divertente e simpatico, scanzonato il giusto e fuori posto quel tanto che basta per strappare un sorriso. Con gente che si strappa i capelli per Achille Lauro, molto più convincenti loro.

FEDERICA CARTA e SHADE 4

Il classico pezzo che “spopolerà sul web” e, giusto in tempo per qualche kermesse estiva organizzata da Friends and Partners, avrà “totalizzato millemilamilioni di visualizzazioni su YouTube”. In sintesi: una ciofeca.

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Nel mondo di Cesare tutto dipende dalla musica

Dopo tre concerti in meno di quattro anni, culminati con l’apoteosi dello stadio Dall’Ara dello scorso giugno (qui la recensione) pensavo ormai, non dico di essermi assuefatto alla cesarite, ma per lo meno di essere arrivato al punto in cui alla prossima data di Cesare Cremonini mi sarei certamente emozionato e divertito come sempre, ma non ci sarebbe più stato modo di stupirmi. Mi sbagliavo. E di grosso.
La prima sorpresa è che, pur riducendo le dimensioni della venue, lo spettacolo viene riproposto tale e quale senza perdere nulla in scenografie ed effetti speciali: intatti i monoliti caleidoscopici, presenti e abbondanti le stelle filanti, i coriandoli e i fuochi d’artificio, semplicemente ridimensionato il palco sul quale Cesare comunque scorrazza felice, regalandosi all’abbraccio della sua gente, che gremisce il Forum “in ogni ordine di posto”, direbbero quelli bravi.
Già, perché la seconda sorpresa, questa sì indipendente dagli immani sforzi della produzione, è trovarselo lì a un paio di metri, grazie a due biglietti di parterre e a un sapiente slalom tra gli accampamenti di zainetti, panini e smartphone, che ci porta a due bracciate dal palco “secondario”, dove in realtà Cesare passa la maggior parte del tempo. Possiamo scrutarne gli sguardi e le espressioni, coglierne la gioia e le emozioni, indovinarne la piacevole fatica sotto la camicia intrisa di sudore, e a volte sembra che si rivolga davvero a noi, guardandoci direttamente negli occhi. Ed è qui, nell’essere in una dimensione intima e confidenziale ma contemporaneamente parte di una folla partecipe e urlante che si compie la magia della terza sorpresa: la forza d’urto di un megashow e insieme la fortuna di avere il tuo artista preferito a due passi, come in un piccolo club di provincia.
Che poi in un palasport o in un club la musica trovi la sua massima forma di esecuzione e fruizione non è un segreto. Se le emozioni che regala uno stadio sono inimitabili grazie alla moltitudine di gente, alla passione che batte il tempo all’unisono, alla potenza dei cori che sono definiti “da stadio” appunto per un motivo, la qualità del suono che regala un luogo chiuso è impareggiabile. E qui corre l’obbligo di citare la straordinaria band che accompagna Cesare (di cui talvolta distrattamente e colpevolmente ci si dimentica, troppo assorbiti da quello straordinario performer che domina il palco), che suona alla grande generi e stili diversi con una precisione e una pulizia rare. Mentre il performer di cui sopra, pur essendo alla seconda data consecutiva, canta come un padreterno, senza soffrire minimamente i due concerti ravvicinati e dando l’ennesima prova di una vocalità calda, precisa e matura; ma questa da tempo non è più una sorpresa.

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Cremonini a Bologna, l’è tót un etar quel! Dall’Ara Edition

Una festa doveva essere e una festa è stata. Forse un giorno a Cesare Cremonini verrà voglia di prendere carta e penna (vabbè, computer e tastiera…) e di provare a descrivere a freddo quello che ha significato per lui il concerto dello scorso 26 giugno al Dall’Ara, andando oltre a quanto già scritto a caldo, con l’adrenalina ancora in circolo, sui vari social network. D’altra parte Cesare non è solo cantante, musicista, autore, arrangiatore e performer ma è anche uno scrittore sopraffino e sono certo che di cose da dire, aneddoti, sensazioni, emozioni, palpitazioni ce ne sarebbero tante.
Immaginate un ragazzo che a solo 19 anni ha già il mondo del pop ai suoi piedi insieme con il suo gruppo, ma cui l’etichetta di “boy band”, frettolosamente appiccicata dai soliti frettolosi giornalisti, sta stretta; e allora riparte da solo a ricostruirsi una carriera solista basata su due concetti fondamentali: qualità e credibilità. E album dopo album, capolavoro dopo capolavoro, riesce nella complicata impresa di mettere d’accordo critica e pubblico, conquistando spazi sempre più grandi, dai club ai palazzetti, fino all’ormai celebre “Dallarino” di Casalecchio di Reno di quattro anni fa che all’epoca avevo già provato a raccontare  (qui il link), e poi finalmente gli stadi, i megaconcerti a cui tutti i grandi artisti più o meno segretamente ambiscono. E in quanto artista straordinario, Cesare Cremonini non ha mai fatto mistero di pensare che la sua musica fosse perfetta per essere suonata negli stadi. In particolare nel suo stadio.
Già, perché rispetto alle altre date di questo primo (e certamente non ultimo) tour negli stadi, quella del Dall’Ara era carica di significati e suggestioni ulteriori e noi possiamo solo provare a immaginare cosa sia passato nella testa di Cesare in quei momenti carichi di tensione prima di salire sul palco, e poi per tutte le due ore e mezza del concerto. La curva Andrea Costa davanti a sé, frequentata ogni domenica in gioventù molto prima che fosse intitolata a Giacomo Bulgarelli, quando anche Cesare indossava “la maglia del Bologna sette giorni su sette” come insegna il suo concittadino Luca Carboni, e non solo per cantare Marmellata #25, come da tradizione. Le migliaia di bolognesi, disseminati nel pit, sul prato, in tribuna, incrociati mille volte sotto i portici o nei locali davanti a un piatto di tortellini e una bottiglia di rosso buono. E poi lo sguardo bonario di Lucio Dalla, nascosto dietro alla luna quasi piena, l’ultimo bolognese a calcare il palco del Dall’Ara quasi quarant’anni fa, insieme col romano Francesco De Gregori ai tempi di Banana Republic. Con tutto l’orgoglio ma anche il carico di responsabilità che una simile eredità comporta.

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La top five degli album stranieri del 2017

I London Grammar, al numero uno della mia classifica

E dopo i cinque migliori album italiani, è ora il turno della mia personalissima Top Five della musica straniera che, tra i vari Despacito e i soliti teen idol, ha regalato non pochi gioielli. Tant’è che le dolorose esclusioni non mancano: da Spirit dei Depeche Mode a For Crying Out Loud dei Kasabian fino ai lavori dei fratelli Gallagher o di Lana Del Rey.

1) Truth Is A Beautiful Thing – London Grammar
Secondo album e secondo capolavoro per il trio londinese che non sbaglia un colpo, e ancora una volta centra un perfetto mix di melodia, elettronica e suoni orchestrali dalle atmosfere ovattate, e impreziosito dalla splendida voce di Hannah Reid. Undici imperdibili brani sospesi tra pop, trip hop e indie rock; suoni perfetti, produzione di primissimo ordine. Fascino e classe.
Perla: Non Believer

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La Top 5 degli album italiani del 2017

Cesare Cremonini, in testa alla mia Top 5 2017

Musicalmente il 2017 è stato un anno per lunghi tratti imbarazzante (soprattutto nel periodo estivo) ma, come spesso accade, per contraltare ha anche vissuto dei picchi di altissimo livello, peraltro concentrati nella prima e soprattutto nell’ultima parte dell’anno. In attesa di conoscere i primi lavori del 2018, già anticipati da alcuni ottimi singoli di recente uscita, ecco la mia personalissima (e quindi opinabilissima) Top Five dei migliori album dell’anno. A cominciare dagli italiani, tra cui avrebbero meritato una menzione anche A casa tutto bene di Brunori SAS e 709 di Caparezza.

1) Possibili scenari – Cesare Cremonini
Uno dei pochissimi artisti che dopo quasi vent’anni di carriera e sei album di inediti riesce ancora a migliorare e a migliorarsi. Possibili scenari è un album che sintetizza in dieci indimenticabili pezzi l’attitudine cantautorale tipica della tradizione italiana e la costante ricerca di un suono internazionale, personale e innovativo. Cremonini crea linee melodiche originalissime; fonde testi e musiche in un intreccio perfetto; stravolge e rivede la forma-canzone ideando nuove e originali strutture; utilizza tutti gli elementi a disposizione di un musicista preparato, colto e ispirato come lui:  strumenti acustici, strumenti elettrici, elettronica e orchestra. Capolavoro.
Perla: Nessuno vuole essere Robin

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Erica Mou pianta la bandiera della musica d’autore

Erica Mou sul palco della Salumeria della Musica (ph. Deborah Raimo)

Benché nel testo della straordinaria Svuoto i cassetti Erica Mou si autodefinisca una “bimba spaesata”, in realtà la ancora giovanissima cantautrice pugliese è cresciuta tantissimo negli ultimi anni, in un percorso di maturazione artistica che con questo bellissimo nuovo lavoro, Bandiera sulla luna, raggiunge il suo apice; momentaneamente, viene da pensare, perché Erica sembra essere oggi nel pieno della sua massima ispirazione e con ogni probabilità ha ancora in serbo altri ottimi album negli anni a venire.
Tanto per cominciare, Erica oggi è molto più donna, in tutte le sfaccettature del termine. È più affascinante: e per la prima volta sulla copertina dell’album si offre in un’immagine in cui si esalta la sua femminilità tra trasparenze e sensualità; è più matura: e per la prima volta nei suoi sempre originali testi fa riferimenti espliciti all’amore fisico e sensuale (“Ti sazierei con i fornelli spenti”, “Ieri, solo ieri,
sdraiati sul fianco, la mia schiena sul tuo petto
”); è più sfrontata: e in un paio di occasioni si abbandona addirittura a un inatteso ma non per questo meno pertinente turpiloquio, buttato là tra immagini piene di poesia.
È più consapevole: e in quello straordinario inno alle donne e all’amicizia femminile, per voce e chitarra, che è Ragazze posate (la prima volta che l’ho ascoltata in anteprima dal vivo avevo pensato fosse la più bella canzone scritta da Erica, oggi resto convinto che sia tra le prime tre) traccia un’introspezione dell’universo femminile da inserire direttamente in un’antologia sul tema; è più libera: e la si vede ballare divertita nel video del primo singolo Svuoto i cassetti a dispetto di quanto raccontava di sé stessa in Giungla: “Allora cerco di ballare bene, ma pare sia il mio corpo a non andare bene”. Inoltre, come accade da quando è tornata nell’alveo delle etichette indipendenti dopo l’esperienza con la Sugar, Erica ha oggi una totale libertà di azione a tutti i livelli: dalla scrittura agli arrangiamenti, dalle interpretazioni alla produzione.

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Possibili scenari: Cesare Cremonini riscrive il significato della parola pop

Cesare Cremonini nel video di “Poetica”

Esattamente tre anni fa, recensendo il meraviglioso concerto di Cesare Cremonini nella “sua” Unipol Arena di Casalecchio nella tappa forse più emozionante del Logico Tour, mi ero focalizzato su due aspetti principali relativi all’artista bolognese. Il primo: con Logico era finalmente diventato quello che voleva essere e da quell’album in poi ci sarebbe stato certamente di che divertirsi perché, per sua stessa ammissione, quel lavoro era un punto di partenza più che un punto di arrivo; il secondo: Cesare in quel momento era diventato la più grande (o più probabilmente l’unica) pop star italiana e avrebbe meritato un tour negli stadi come già allora accadeva per artisti dal valore largamente inferiore (senza nulla togliere a nessuno). A distanza di tre anni, arriva finalmente la notizia del suo primo tour negli stadi, previsto per la prossima estate, in contemporanea con l’uscita di un nuovo capolavoro come Possibili scenari, un album destinato a riscrivere il significato della parola pop, in Italia e non solo.
Possibili scenari è infatti un disco che sublima le due caratteristiche principali di Cesare: da una parte l’attitudine cantautorale che da sempre lo contraddistingue e che ne fa probabilmente l’unico erede della scuola che parte da Fossati, Tenco, De André a Genova, passa per la Roma di De Gregori e Venditti e arriva inevitabilmente alla Bologna di Dalla. Dall’altra una maniacale ricerca sonora, come sempre con il solito decisivo contributo del fido Alessandro Magnanini, che modernizza l’approccio classico del cantautore voce e chitarra e gli regala un sound pieno, attuale e internazionale, che certamente vede il pianoforte di Cremonini in primo piano nei brani più intimi, ma anche un’esplosione di strumenti, anche inusuali, a dare anime diverse a pezzi diversi, basti pensare al theremin di Vincenzo Vasi che chiude in modo stupefacente quella clamorosa suite pop-rock che è il primo singolo Poetica.

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