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Rock e tacco dodici: la classe di Paola Turci

Paola Turci sul palco del Teatro Valli

Se c’è un’artista sottovalutata nel panorama musicale italiano questa è assolutamente la bravissima Paola Turci. Forse perché troppo mainstream per il mondo indie (che peraltro Paola ha frequentato) che troppo spesso guarda al circuito delle major con un po’ troppa spocchia, forse perché troppo indipendente (per fortuna!) per entrare nel frullatore mediatico che trasforma cantanti di caratura ben minore in popstar artificiali, adibite a mere macchine per la produzione di denaro. Fatto sta che pur avendo nel corso di una carriera lunga ormai più di trent’anni ottenuto il plauso unanime della critica (con una sorta di abbonamento, per esempio, al premio della critica sanremese) e del pubblico, competente, che la segue, resta l’impressione che non sia considerata una delle grandissime della musica italiana come ampiamente meriterebbe.

Un’ennesima dimostrazione della sua bravura si è avuta poche sere fa in occasione della tappa reggiana del suo Il secondo cuore Tour, durante la quale ha incantato il pubblico del Teatro Valli di Reggio Emilia con una performance maiuscola per intensità, energia, eleganza e feeling. E con una scaletta incentrata sui brani del suo ultimo fortunatissimo album intitolato proprio Il secondo cuore (da cui piuttosto sorprendentemente restano esclusi due piccoli gioielli come La fine dell’estate e Nel mio secondo cuore), probabilmente il lavoro più riuscito della cantautrice romana, grazie a una maturità artistica raggiunta attraverso un lungo percorso ricco di sfide e di idee nuove e anche grazie alla collaborazione con la bravissima autrice romana Giulia Anania (oltre che con Enzo Avitabile e con Luca Chiaravalli alla produzione), che affianca Paola nella scrittura di gran parte dei brani dell’album.

Un percorso, quello di Paola, iniziato nell’ormai lontano 1986 a Sanremo con la prima partecipazione al Festival nella sezione Nuove Proposte (L’uomo di ieri) e consolidato con la vittoria nella categoria Emergenti tre anni dopo con l’indimenticabile Bambini, uno dei non rari pezzi di impegno sociale e civile che caratterizzano da sempre il repertorio di Paola, che interpretava già allora la fine degli anni ’80 sulla scia delle Edie Brickell, delle Tracy Chapman e delle Tanita Tikaram (chitarra a tracolla e attitudine da folk-singer) che si contrapponevano al pop disimpegnato di Madonna e delle sue eredi ormai in rampa di lancio.
Un cammino che ha visto Paola evolversi e trasformarsi, vestendo panni sempre nuovi, da pura interprete a cantautrice fatta e finita, passando attraverso un gusto raro per la rielaborazione e la reinterpretazione di cover straniere poco scontate: dalla Luka di Suzanne Vega degli esordi fino a This Kiss (Questione di sguardi) che senza la sua versione probabilmente sarebbe passata inosservata alle orecchie distratte degli italiani che non si fossero imbattuti nel film Amori & incantesimi. Un gusto che contamina positivamente anche le sue esibizioni live, in cui dosa con grande maestria i propri brani originali e le sue cover più famose.

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L’amore e la violenza secondo i Baustelle

Rachele Bastreghi, Francesco Bianconi e Claudio Brasini

Come all’incirca mezza Italia, nell’autunno del 2005 rimasi incantato da La guerra è finita, il primo singolo dei Baustelle premiato da altissima rotazione radiofonica, anche (soprattutto) in virtù del recente passaggio della band ad una major come la Warner Bros. La semplice ma geniale progressione armonica, l’arrangiamento d’orchestra perfettamente fuso con suoni indie, la voce particolare di Francesco Bianconi con quel timbro scuro alla Nick Cave, le liriche originali, sospese tra pathos, ironia ed understatement nel trattare un argomento spigoloso e complicato come il suicidio giovanile.

Insomma, bastò poco perché decidessi di acquistare l’album La malavita, il terzo lavoro della band di Montepulciano ma, come detto, il primo a godere di visibilità mediatica anche al di fuori del circuito indie grazie al contratto con un’etichetta multinazionale. I precedenti Sussidiario illustrato della giovinezza e La moda del lento avevano infatti riscosso grande credito nel circuito underground ma poca diffusione al grande pubblico, anche perché all’epoca la potenza dei social network era nulla se paragonata a quella di oggi.

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Il fresco country “valdostano” di Mikol Frachey

La cover dell'album di Mikol Frachey

La cover dell’album di Mikol Frachey

È sempre un piacere poter godere della musica di giovani artisti italiani, che seguo sempre con simpatia. È un piacere ancora più grande poterne scriverne. Ed è un piacere enorme poter scrivere di artisti che ho avuto la gioia di conoscere e che quindi seguo con ancora più affetto nella loro avventura nel complicato mondo della discografia. È questo il caso di Mikol Frachey, giovanissima cantautrice che ho avuto la fortuna di poter ascoltare diverse volte dal vivo e che poche settimane fa è uscita con il suo primo album, intitolato col suo nome. Un album in cui spiccano la splendida voce della diciannovenne valdostana e una sonorità del tutto inusuale nelle produzioni made in Italy: un country che affonda le radici nei suoni caratteristici della tradizione americana, ma sapientemente declinato secondo i dettami della modernità.
Ma cosa lega le sonorità di Nashville e i dolci pendii intorno a Saint-Vincent? Non possiamo nemmeno pensare alla “West Virginia, mountain mama” di John Denver perché i riferimenti stilistici di Mikol sono altri, come è giusto che sia e come si conviene a una ragazza di diciannove anni.
Ecco allora che l’esperienza country a cui si ispira la Frachey è quella moderna e in qualche modo “contaminata” di artiste come Carrie Underwood e Gretchen Wilson, Shania Twain e, soprattutto, Taylor Swift, che viene citata in maniera implicita ed esplicita a più riprese tra le tracce dell’album. Una contaminazione da intendere nel senso più nobile del termine: quella in cui le canzoni, grazie a produzione e arrangiamenti che strizzano l’occhio all’attualità, diventano semplicemente più fruibili, mantenendo tuttavia intatte le caratteristiche e i suoni della musica country e, cosa molto importante, senza mai scivolare nel banale pop da classifica. Emergono allora altri riferimenti importanti, a loro volta frutto di contaminazioni, tipici di una millennial che ascolta musica contemporanea: dal raffinato pop-folk di Ed Sheeran al country-pop di Sam Hunt, con sfumature che riportano alle venature maggiormente rock di John Mayer.

Non a caso, Mikol non solo scrive interamente e interpreta i sui pezzi, ma suona anche splendidamente la chitarra (acustica, elettrica e dobro), aspetto che si evince chiaramente già in fase di scrittura, così che il suo approccio country si definisce fin dall’ispirazione; come prova di tutto questo basta ascoltare, in rete, la versione dal vivo del singolo Give Me Water, solo voce e chitarra. Sono poi  l’arrangiamento e la produzione a miscelare sapientemente strumenti tipici della tradizione americana (chitarra dobro, armonica, banjo, fiddle) e suoni più moderni e contemporanei. Suoni che vedono le chitarre sempre in primo piano, a tratti addirittura rockeggianti: si pensi all’assolo finale dell’ottima Budweiser, il brano sicuramente più rock dell’album, ma anche alla struttura di Blind, con arpeggi quasi brit-pop, diverse parti di chitarra stoppata e una batteria a tratti molto potente.
Tuttavia Mikol non si limita certo a scimmiottare meccanicamente esperienze altrui, ma le rielabora e le fonde con la sua sensibilità per creare una musica personale e originale. Gli elementi di punta sono infatti il suo ottimo songwriting, semplicemente incredibile per una ragazza della sua età, e un minuzioso lavoro di studio per trovare a ciascun brano il vestito giusto. In questo senso la nuova versione di Give Me Water è già una dichiarazione d’intenti: il nuovo arrangiamento alza di una tacca tutti i suoni più riconducibili al country e aggiunge nuovi elementi distintivi, dalla batteria che sembra trottare, ai cori di background, dal fiddle al flauto. Una rivoluzione artistica rispetto ai suoni del singolo e del relativo video, probabilmente dettata dall’esigenza di dare coerenza stilistica all’album.

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Achtung Baby, i 25 anni di una pietra miliare della musica

La cover art di Achtung Baby

La cover art di Achtung Baby

Narra la leggenda che alcuni fan riportarono indietro l’album al negozio di dischi. Dopo aver messo sul piatto il lato A del vinile (già, c’era ancora il vinile…) e aver sentito le chitarre fastidiosamente distorte dell’intro di Zoo Station, cambiarono lato e vi trovarono le chitarre ancora più fastidiosamente distorte di The Fly. Così tornarono al negozio e chiesero di cambiare l’album, a loro dire difettoso.

Era il 18 novembre 1991 e, benché si tratti ovviamente di una leggenda (d’altra parte The Fly era uscita già da un mese e si sapeva già bene come suonasse), è un aneddoto che ben racconta cosa abbia significato Achtung Baby nella storia non solo degli U2, ma di tutta la musica rock contemporanea. 25 anni dopo quella fatidica data, resta un album di un’attualità sorprendente, i cui suoni hanno influenzato l’intera decade e anche oltre, fino a ben dentro il terzo millennio. Una di quelle pietre miliari della musica che qualsiasi semplice appassionato non può non conoscere. Della genesi di quel lavoro, dei pesanti attriti tra i membri della band che la accompagnarono, dell’inutile ricerca di ispirazione in una Berlino appena riunita, privata del muro e rappacificata, è stato detto e scritto tutto. Così come della magia che si materializzò in studio seguendo il semplice giro armonico di One e che guidò quattro musicisti convinti di essere ormai al capolinea a realizzare invece un altro album capolavoro e ad assicurarsi altri 25 anni (almeno) di successi. Quindi quello che voglio provare a ricordare oggi, nel giorno di questo importante anniversario, è invece l’effetto che Achtung Baby ebbe su di me, in quello che senza dubbio fu un anno magico per la storia della musica (basti citare Nevermind, Out Of Time, Blood Sugar Sex Magik, il Black Album dei Metallica, il canto del cigno dei Queen Innuendo, Ten dei Pearl Jam, l’addio dei Dire Straits On Every Street, i due Use Your Illusion…). Su un ragazzino di diciotto anni che era solo uno dei tanti che aveva iniziato, quasi faticosamente, ad apprezzare gli arpeggi puliti in delay di The Edge e che di colpo era stato travolto da un muro sonoro di chitarre sature e distorte.

Già, perché per quanto sia stato educato alla buona musica fin da piccolo grazie a un fratello maggiore illuminato (che mi iniziò all’ascolto di Billy Joel e dei succitati Dire Straits su tutti), in età adolescenziale della band di Bono e soci mi arrivava poco. Avevo solo dieci anni quando uscì Pride e, pur essendo stata fin dall’epoca una hit devastante in heavy rotation su Deejay Television, in quel momento non ne coglievo la portata epocale; piuttosto mi chiedevo perché si chiamasse Pride quando per tutto il tempo ripeteva “in the name of love”; lo scoprii solo diversi anni dopo con il testo davanti. Avevo undici anni, invece, quando in vacanza estiva con la scuola venivo svegliato ogni mattina da un brano sconosciuto trasmesso dagli altoparlanti della camerata, che in seguito imparai a conoscere come Sunday Bloody Sunday. Avevo tredici anni, infine, quando i miei amichetti cercavano di convincermi della bellezza di With Or Without You che invece a me, tutto sommato, in quel momento, non diceva granché. Insomma, non si può certo parlare di amore a primo ascolto. E la cosa sia di consolazione a chi ha figli che ascoltano i Modà: c’è tempo per crescere e imparare. Allo stesso modo l’innamoramento con Achtung Baby non fu un colpo di fulmine, ma un lento e paziente corteggiamento; con lui, l’album, che si faceva scoprire a poco a poco, traccia dopo traccia, ed io che pian piano mi abituavo a quei suoni, li metabolizzavo quasi staccandoli dal resto, fino a riconoscere la melodia, e a scavare nella profondità dei testi.

All’inizio però fu solo One: totalmente incantato dall’andamento irrituale del pezzo, dal crescendo disperato, dall’arrangiamento perfetto, dall’incredibile dinamica di un pezzo che parte quasi come un sussurro per voce e chitarra ed esplode in una power ballad che più power non si può, fino a un finale che ti trascina in un’altra dimensione. Recuperai di corsa With Or Without You e lì ebbe luogo l’illuminazione, il riconoscimento del genio: riascoltai il brano in parallelo con One e trovai tutte le presunte regole della hit perfetta scardinate e reinventate. Entrambe costruite su giri armonici banalissimi, a dispetto delle masturbazioni mentali dei maniaci delle settime diminuite e delle quarte sospese, entrambe prive di un vero e proprio ritornello, con buona pace di tutta la retorica sanremese sull’orecchiabilità delle melodie, entrambe per lungo tempo a rischio di essere scartate e di finire nel cestino a causa dell’incertezza sulla direzione da prendere.  Salvate in un caso dalla Infinite Guitar di The Edge, nell’altro dall’intervento di Brian Eno, dopo che in seguito all’eccitazione iniziale per la nascita magica del pezzo, One si era persa tra mille overdub e mix diversi.

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Francesca Michielin, voce incantevole e talento purissimo

Francesca Michielin sul palco del Campus (foto Gazzetta di Parma)

Francesca Michielin sul palco del Campus (foto Gazzetta di Parma)

Cosa dire di un concerto che si apre con le sequenze, gli effetti e i beat elettronici di Battito di ciglia e si chiude con l’inconfondibile riff di chitarra di Whole Lotta Love? La risposta è nelle parole di qualche settimana fa della stessa Francesca Michielin, all’atto della presentazione del di20are Tour che ha fatto tappa al Campus Music Industry di Parma lo scorso 22 ottobre: «Mi sta molto a cuore il concetto di tesi-antitesi-sintesi – ha spiegato la cantautrice di Bassano del Grappa – mentre quella del Nice To Meet You Tour è stata solo un’antitesi perché mi ha dato la possibilità di stravolgere completamente il mio repertorio, rendendolo più scarno, e alcuni brani ne sono usciti trasformati».

Il riferimento è al tour precedente, che vedeva Francesca protagonista di uno spettacolo intimo e minimale in cui si trovava da sola sul palco alternandosi tra chitarra, pianoforte, timpani e loop station, con il risultato di stravolgere significativamente diversi pezzi rivisitati necessariamente in chiave acustica. In questo nuovo show, Francesca è invece accompagnata da una vera band di quattro elementi (i giovanissimi Eugenio Cattini – chitarra, Luca Marchi – basso e Maicol Morgotti, batteria, ottimamente diretti dal “direttore musicale” e tastierista Luchi Ballarin) che regalano un suono ben più potente (non solo nella citata cover dei Led Zeppelin) e moderno, arricchito com’è dai drum pad, dalle sequenze e da una ampia gamma di effetti su strumenti e voce.

Ecco, se proprio vogliamo trovare qualcosa che non convince è proprio il secondo microfono effettato che Francesca alterna con quello “pulito”: non so se sia trattato di un problema tecnico o della posizione in cui mi trovavo ma degli effetti si sentiva veramente poco, se non nulla. Ma a prescindere da questo, l’ambizioso piano della Michielin di mettere insieme tutte le sue anime, i suoi riferimenti musicali anche quando sembrano essere in palese contraddizione tra loro e trovarne la sintesi è perfettamente riuscito. Da una parte, si diceva, una precisa e approfondita ricerca sonora per trovare il vestito giusto per ogni pezzo con un evidente maniacale lavoro di studio, poi trasposto nei live grazie alle sequenze, dall’altra la passione per il ruvido suono rock’n roll. Da un lato un lavoro di songwriting incredibilmente maturo per una ragazza di appena 21 anni, dall’altro straordinarie doti di cantante pura (d’altra parte non si vince X Factor a 16 anni se non si sa cantare) nell’interpretare i pezzi scritti per lei da autori importanti, Elisa su tutti, e nel rileggere con personalità e originalità cover mai banali, a dimostrazione di una cultura musicale ben sopra la media non solo di una giovane ragazza della sua età, ma anche di musicisti ben più scafati di lei.

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Dreams are alive tonite. Bruce Springsteen a San Siro

Bruce Springsteen e Jake Clemons sul palco di San Siro

Bruce Springsteen e Jake Clemons sul palco di San Siro

C’è una chiarissima espressione di Bruce Springsteen, nel momento in cui sale sul palco di San Siro e guarda ammirato la scenografia che i suoi fan gli hanno preparato: il secondo e il terzo anello formano la scritta Dreams are alive tonite con cartoncini blu e bianchi (i colori di The River) mentre il primo anello completa l’”installazione” con una grande bandiera italiana. A quasi 67 anni, di cui più di quaranta spesi sui palchi di mezzo mondo, deve averne viste di tutti i colori e non è certo il primo omaggio che i fan gli regalano, ma sul suo viso, rimandato dai maxischermi anche a noi poveri loggionisti del terzo anello, si disegnano i tratti del vero stupore. Scorre con gli occhi la scritta per fare intendere che ha capito e senza inchini e ringraziamenti plateali inizia a fare quello che è venuto a fare e che sa fare meglio: suonare.

In quell’immagine, in quel breve fotogramma, c’è tutto il Bruce uomo e lo Springsteen artista che abbiamo imparato a conoscere e ad amare, contraddistinto da una dote sempre più rara nello show-business: l’onestà. E non parlo dell’onestà utilizzata come una clava da qualche pseudo-politico da due lire,  ma di un’onestà ben più alta e di ben altro valore: l’onestà intellettuale. Perché Springsteen con noi è sempre stato sincero: sincera era la rabbia giovanile, la voglia di spaccare il mondo, di fuggire via da vite ordinarie inseguendo corse in macchina, amori sbilenchi, avventure notturne, la grande occasione. In poche parole, il sogno americano. Ugualmente sincera la disillusione della maturità, mai così potente come nel tormentato The Ghost Of Tom Joad, nel vedere quel sogno infranto, strangolato dall’attualità, dalle questioni razziali, dai veterani senza tetto, dalla violenza per le strade. Ed è sincero adesso, ora che anche i lineamenti del suo viso sembra essersi distesi nel sorriso bonario di uno zio gentile (definirlo nonno sarebbe offensivo…), quando sembra solo volersi godere lo spettacolo, non certo per specchiarsi in un vuoto rito autocelebrativo, ma semplicemente per ammirare l’energia del rock’n roll, quello che in quella sorta di  garbage time a luci accese trasforma tutto in un’enorme festa.

È il The River Tour, si celebrano i 35 anni (nel frattempo diventati 36) del doppio album simbolo dell’epopea del Boss del New Jersey. A differenza della parte americana del tour, tuttavia, l’album non viene eseguito per intero front to back ma ne vengono estratti solo 14 brani, sempre in rigoroso ordine cronologico ma inframmezzati da altri classici del repertorio springsteeniano. Un tuffo nel passato, certo (d’altra parte solo due canzoni in scaletta sono del terzo millennio: Death To My Hometown e The Rising), ma non un’operazione nostalgia: per quanto possa apparire banale e retorico affermare che le canzoni di Bruce sono senza tempo, la verità è che è esattamente così. La scanzonata allegria di Sherry Darling, il colossale coro che come da tradizione scuote San Siro su Hungry Heart, l’intensissima Independence Day (proprio alla vigilia del 4 luglio), la trascinante Out In The Street sembrano uscite non da un album del 1980 ma dall’esordio discografico di qualche giovane band dei nostri giorni. Solo per limitarsi agli estratti di The River.

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Da un’Arena all’altra: 35 anni di Duran Duran

Simon Le Bon, John Taylor e Dom Brown sul palco dell'Arena

Simon Le Bon, John Taylor e Dom Brown sul palco dell’Arena

C’è un’intera generazione che dovrebbe chiedere scusa ai Duran Duran. Intendiamoci, loro se ne saranno sicuramente fatti una ragione, mentre raggiungevano le vette delle classifiche di tutta Europa, riempivano gli stadi di mezzo mondo e i sogni di milioni di ragazzine alle prese con le prime battaglie contro i propri ormoni. Ma se è vero come è vero che la leggenda secondo la quale gli anni ’80 hanno rappresentato il vuoto culturale (e quindi musicale) è già stata smontata pezzo per pezzo da altri molto più bravi di me, Simon Le Bon e soci sono stati ingiustamente trattati come fenomeni da baraccone per troppo tempo, in quanto rappresentanti massimi di quella nuova ondata (soprattutto britannica) che si impose a partire da quegli anni. Accusati di fare musica di plastica come dei Modà qualsiasi, e altrettanto ingiustamente etichettati come una patinata boy band ante litteram.

D’altra parte, all’epoca, dopo un decennio duro e cattivo, contraddistinto da austerity, anni di piombo e voglia di ribellione, gli anni ’80 si presentarono con giacche di lustrini e paillettes. Da una parte l’edonismo reaganiano, dall’altra la iron lady Margaret Thatcher, in mezzo Bettino Craxi e la Milano da bere: fine della rabbia punk, inizio dell’era del glitter e del mascara; no alle chitarre sfasciate, sì ai sintetizzatori e alle prime diavolerie elettroniche. In tutto ciò si fece più caso alle mèches di Simon Le Bon e all’eyeliner di Nick Rhodes che al basso avvolgente di John Taylor o ai ricami della chitarra di Andy. Eppure tutti quelli che avevano un minimo interesse per la musica e un giradischi in casa possedevano il vinile di Arena, senza obbligatoriamente stazionare davanti al Burghy di San Babila con un Moncler addosso. Perché se altrove gli anni ’70 avevano significato Ramones, Clash e Sex Pistols, dalle nostre parti avevano significato soprattutto Brigate Rosse. Tanto valeva provare a lasciarseli alle spalle ed abbracciare la New Wave.

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Droni alla conquista di Milano: Muse live

I Muse sul palco del Forum

I Muse sul palco del Forum

È ormai chiaro da diverso tempo come la nuova frontiera del music business sia diventata la produzione e la realizzazione di spettacoli dal vivo, molto più redditizi rispetto alla vendita di copie fisiche di CD che ormai hanno un costo non più competitivo all’interno di un’offerta virtuale illimitata: troppo facile oggi l’accesso a contenuti multimediali tramite piattaforme on-line, quando lo stesso streaming è ormai legalizzato e regolamentato, senza nemmeno quel minimo di rimorso di coscienza di anni fa nel trovarsi a piratare musica (o film) illegalmente. L’unico modo per mantenere alta l’attenzione verso un prodotto che fatalmente internet ha banalizzato, rendendolo disponibile anche a un utente bassamente coinvolto e interessato, è allora quello di vendere un prodotto unico e irripetibile come un live show: perché se è vero che nel giro di pochi giorni si possono trovare ovunque i video dello spettacolo registrati con i telefonini, è altrettanto vero che le emozioni del momento dell’evento, del qui ed ora, difficilmente sono registrabili attraverso uno smartphone. E a quanto pare la gente, che riesce a risparmiare sull’acquisto di musica preferendo il download legale (almeno speriamo) all’acquisto di CD, quando non si accontenta dello streaming su Spotify o addirittura dell’infima qualità audio dei video su YouTube, è disposta a sborsare cifre importanti per ascoltare i concerti dei propri artisti, spettacoli che in certi casi definire solo concerti è francamente riduttivo. A patto, però, che lo show offerto sia davvero sensazionale, unico, irripetibile.

In questo campo, è evidente, i Muse hanno ormai fatto scuola: da sempre abituati a stupire il pubblico con spettacoli pirotecnici, palle di fuoco, utilizzo sapiente dei video e dei megaschermi, invenzioni scenografiche mai banali, sono da tempo la rock band da stadio per eccellenza, dimensione in cui si trovano perfettamente a proprio agio. Ed anche il nuovo Drones Tour, concepito invece per palasport e arene, non tradisce le attese: ancora una volta la band di Teignmouth si dimostra all’avanguardia non solo per le scelte musicali ma anche per l’originalità della proposta scenica e teatrale. Ed è così che i tanto attesi droni lo scorso 14 maggio sono atterrati ad Assago, in un Forum gremito che come sempre ha regalato un colpo d’occhio notevole, nonostante i larghi spazi vuoti nel parterre, non è chiaro se dovuti a motivi di sicurezza o a una sovrastima delle dimensioni del palco, e nonostante si trattasse della prima di ben sei date sold-out che hanno spinto il promoter italiano a lanciare l’hashtag #MuseWeek.

Con questo show, Matt Bellamy e compagni spostano di un’altra tacca verso l’alto l’asticella del concetto “la musica al centro” che era stato ideato dagli U2 nel 360° Tour tra il 2009 e il 2011. In questo caso non solo il palco è aperto e sistemato al centro del parterre, permettendo così una visione a tutto tondo da ogni settore dell’impianto, ma è anche rotante in modo che tutto il pubblico, a turno, possa incrociare lo sguardo dei propri beniamini. Allora Dominic Howard ha la sua batteria posizionata ovviamente al centro del palco rotante; alle sue spalle, in realtà un po’ sacrificato in una buca, il “membro non ufficiale” Morgan Nicholls, preziosissimo polistrumentista che affianca i tre Muse alternandosi tra tastiere, sequenze e chitarre. Ai quattro punti cardinali del palco ci sono altrettante postazioni microfoniche su cui si alternano Chris Wolstenholme con i suoi bassi distorti e immaginifici (vedi lo strano strumento che utilizza in Madness, che combina il basso synth Misa Kitara e il suo classico Status Graphite S2) e Matt che, novità assoluta, in più di un’occasione (Starlight ed Uprising per esempio) abbandona l’amata chitarra lasciando il compito dell’accompagnamento ritmico a Morgan per poter scorrazzare liberamente avanti e indietro sul palco, dedicandosi caso mai solo agli assolo. La parte video dello spettacolo viene proiettata su un display ugualmente tondo che troneggia sopra il palco e su impalpabili teli retrattili che scendono a comando dal soffitto; una produzione di altissimo livello, di elevatissimo valore tecnologico e curata nei minimi dettagli, che giustifica senza ombre di dubbio il prezzo di biglietti non certo economici.

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Classe ed eleganza al potere: il live dei Landlord al Biko Club

I Landlord sul palco del Biko Club

I Landlord sul palco del Biko Club

Dopo il breve assaggio acustico al meet & greet del Semm di Bologna, finalmente ho avuto l’opportunità di ascoltare un intero set dei Landlord, giunti alla terza tappa dell’Aside Tour dopo i pienoni registrati al Covo, sempre di Bologna, e soprattutto al Velvet della loro Rimini: ogni tanto qualcuno propheta in patria riesce ad esserlo. Il club scelto per la tappa milanese è invece il piccolo Biko, di cui un’emozionata Francesca ricorda un episodio di proprio un anno fa: da spettatrice venne ad assistere al concerto di James Vincent McMorrow, e mentre ascoltava uno dei suoi artisti preferiti, sognava di esibirsi proprio su quello stesso palco, così vicino e a contatto con la gente. Un anno più tardi, dopo aver lasciato il politecnico, frequentato il loft più famoso d’Italia e inciso il primo lavoro con la sua band, ecco che quel desiderio si realizza. Il piccolo palco fatica a contenere tutti gli strumenti della band ed è adornato con otto lampade che rendono ancora più intima l’atmosfera, il pubblico è veramente a poco più di un metro di distanza e se nessuno fa un passo ulteriore verso il palco è solo per pudore, per non invadere uno spazio che deve essere doverosamente lasciato agli artisti. Ma siamo tutti lì, incantati dal magnetismo di Francesca; ammirati dalla poliedricità di Gianluca che passa con disinvoltura dalla chitarra alle tastiere e poi ancora all’harmonium; rapiti dai ricami di Luca alla chitarra e dalla sua presenza discreta ma fondamentale come seconda voce; impressionati dai pattern di Lorenzo, che ora picchia con decisione sulle pelli, ora trova suoni elettronici in punta di bacchetta.

La scelta stilistica è infatti quella di riprodurre il più fedelmente possibile il suono che abbiamo potuto apprezzare nell’ottimo primo EP, uscito poco più di un mese fa per Inri Metatron ed intitolato appunto Aside; un suono ricco e pieno senza mai essere saturo, curato nei minimi dettagli e frutto di una costante e quasi maniacale ricerca dell’equilibrio tra parti suonate ed elettronica: il giusto tappeto sonoro per valorizzare la voce calda e delicata di Francesca, che si muove negli spazi lasciati liberi da una musica che non può e non vuole arrivare a riempire le frequenze. Suoni che brillano per raffinatezza ed eleganza, e che in Italia sarebbero classificati come alternativi e indie ma che nel mondo britannico e anglofono fanno invece parte di una corrente importante ormai diventata mainstream, come dimostra il grande numero di artisti che ne fanno parte a vario titolo.

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Florence Welch incanta Bologna

Florence Welch sul palco della Unipol Arena

Florence Welch sul palco della Unipol Arena

Travolgente, ipnotica, istrionica, sensuale, teatrale, folle, esuberante, intensa. Non è facile descrivere con aggettivi il personaggio, ma soprattutto l’artista, Florence Welch, senza dubbio il fenomeno più interessante che la musica britannica, e non solo, ci ha proposto in questi ultimi anni. Si può però provare a farlo utilizzando due immagini, due flash: i primi fotogrammi dello spettacolo entusiasmante che la rossa londinese ha regalato a una Unipol Arena gremita, insieme alla band che con lei forma i Florence and the Machine. Nel primo fotogramma, dopo l’ingresso della band, Florence entra in scena puntualissima in un lungo abito turchese pieno di svolazzi e trasparenze e a piedi nudi come da tradizione, si posiziona davanti al microfono e sposta una mano nell’aria con un gesto teatrale; l’arena esplode. Nel secondo fotogramma, invece, attacca il primo pezzo della scaletta ed il pezzo è What The Water Gave Me (peccato che non sia stata seguita dal suo naturale prolungamento Never Let Me Go) cioè il manifesto che riassume in un solo brano il suo stile musicale e la sua poetica: il titolo viene da un quadro di Frida Kahlo mentre il testo è ispirato dal suicidio di Virginia Woolf che si buttò nel fiume Ouse con le tasche piene di sassi: “Lay me down, let the only sound be the overflow, pockets full of stones”. Difficile immaginare un altro artista con la stessa presenza scenica e gli stessi riferimenti culturali.

Purtroppo il suicidio e le sventure erano all’ordine del giorno in casa Welch, dove la giovane Florence dovette assistere al divorzio dei genitori, alla morte del nonno paterno in seguito a un ictus e al suicidio della nonna materna affetta da malattia bipolare. E per non farsi mancare nulla, si esibì per la prima volta in pubblico, cantando The Skye Boat Song al funerale della nonna paterna, a sua volta vittima di ictus. Normale che i temi a lei cari siano quelli ispirati al rinascimento e al romanticismo poetico: amore e morte, tempo e dolore, paradiso e inferno. E così Florence, nonostante i soli 29 anni, porta già sul volto i segni dei tanti tormenti passati, ma anche il sorriso sincero di chi in qualche modo se li è messi alle spalle, almeno fino al prossimo. Ironizzando anche su una certa passione per il vino (“Another drink just to pass the time, I can never say no” racconta in Delilah) e sulla leggenda che la vuole comporre sempre in seguito a una sontuosa sbronza.

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